Pochi giorni fa, nel Sanders Theatre della Harvard University a Boston, i Premi IgNobel, giunti alla 26° edizione, sono stati consegnati da alcuni autentici e spiritosi Premi Nobel, come Dudley Herschbach (chimica 1986), Jerome Friedman (fisica 1990), Rich Roberts (medicina 1993), Roy Glauber (fisica 2005), Eric Maskin (economia 2007).
di Gian Piero Jacobelli
Si dice che i Premi IgNobel – su cui non a caso anche questa rivista è tornata di tanto in tanto negli anni passati – facciano “prima ridere e poi pensare”. Con il passare degli anni, infatti, anche se hanno continuato, almeno alcuni, a “fare ridere”, la loro programmatica stravaganza sempre più spesso ha anche “fatto pensare”, consentono qualche riflessione non marginale sugli orientamenti meno istituzionali e più sostanziali della ricerca scientifica.
In proposito, va preliminarmente sottolineato che si tratta di vere e proprie ricerche, realizzate nei laboratori di tutto il mondo non per partecipare a questa autentica kermesse del “famolo strano”, come avrebbe ribadito Carlo Verdone, ma per “seguir virtude e canoscenza”, con tanto di revisori accreditati e di autorevoli comitati di selezione.
Con la concisione richiesta da questi editoriali, si possono individuare, accanto a una pertinente leggerezza di metodo – in proposito va registrato, per esempio, il Premio per la chimica, conferito alla Volkswagen per avere risolto “il problema delle eccessive emissioni inquinanti”, ogni volta che le automobili vengono sottoposte a controlli –, le più significative ricorrenze di merito. Queste ricorrenze, infatti, riflettono, sia pure sotto profili talvolta caricaturali, alcune propensioni non marginali della ricerca scientifica contemporanea.
Nella spettacolare evidenza dell’evento organizzato dalla rivista “Annals of Improbable Research” (AIR), ha assunto un talvolta paradossale rilievo la prevalente attenzione, biologica ed etologica, per il mondo animale e la programmatica correlazione tra il mondo animale e il mondo umano nei suoi diversi aspetti psicologici e comportamentali.
Si comincia con uno studio sulla fertilità dei topi – che da sempre costituiscono il primo stadio degli studi sull’uomo – in relazione ai diversi tipi di tessuto, per constatare che le fibre artificiali sembrano pregiudicare elettrostaticamente tale fertilità. Si prosegue con la simulazione, mediante protesi artificiali, delle modalità di deambulazione delle capre e delle tecniche di sopravvivenza di alcuni animali selvaggi, come tassi, lontre, volpi. Si conclude con la valutazione della maggiore resistenza dei cavalli bianchi alle aggressioni dei tafani, attribuita alla polarizzazione della luce, e con la ricognizione delle frequentazioni cimiteriali delle libellule, che sembrerebbero attirate dalle lapidi più scure.
Dagli animali all’uomo, su cui molti degli attuali Archimedi Pitagorici si sono davvero sbizzarriti: dalla “specularità” degli stimoli corporei, che allo specchio sarebbero fungibili sia da destra, sia da sinistra, alla percezione empatica delle rocce, che rivelerebbero, agli occhi di chi le guarda, una loro peculiare personalità; dal mondo alla rovescia, e alla lontana, di chi, piegandosi, lo guarda attraverso le gambe aperte, all’autorappresentazione dei mentitori abituali e alla convenzionale credulità dei fruitori di Facebook. E chi più ne ha, più ne metta.
Questo andamento antropocentrico della ricerca scientifica trova una ulteriore pregnanza in un altro dei Premi IgNobel, quello per la letteratura, conferito a uno scrittore che proprio in questi mesi sta riscuotendo un sintomatico successo.
Si tratta di Fredrik Sjöberg, autore di L’arte di collezionare mosche, un memoriale autobiografico tradotto anche in Italia, in cui la funzione simbolica della mosca – il più infimo degli insetti, per altro protagonista dell’intera storia della letteratura e anche della filosofia occidentale – si associa alla funzione psicologica del collezionismo che, come suggeriva Italo Calvino, rivela le caratteristiche intime di una personalità.
Come dire che, a furia di proiettare il mondo sull’uomo, si finisce per comprendere come, e perché, l’uomo si proietti sul mondo. Quale migliore elogio si potrebbe rivolgere a una iniziativa stravagante, ma non eccentrica, quanto meno dal punto di vista epistemologico?