Come le nuove generazioni usano la tecnologia per celare, rivelare e formare la propria identità? Se lo chiede l’ultimo fascicolo di MIT Technology Review USA: un interrogativo che cerca risposte nella odierna rivoluzione digitale, anche se non si tratta di un problema del tutto nuovo.
di Gian Piero Jacobelli
Quando, a partire dalla metà dell’Ottocento, molti hanno cominciato a interrogarsi sulla rivoluzione che i nuovi mezzi di trasporto stavano provocando nelle abitudini di vita e nelle stesse visioni del mondo – chi non ricorda il bellissimo romanzo di Michael Crichton, intitolato in italiano La grande rapina al treno, pubblicato nel 1975 e tradotto in pellicola quattro anni dopo? – è apparso subito chiaro che la nascente tecnologia sarebbe stata oggetto di un duplice sentimento: la speranza che le cose possano cambiare in meglio e il timore che in questo meglio potesse annidarsi anche il peggio.
Un mostro, dunque, nel duplice senso del fascino e della minaccia, che ha finito per coinvolgere non soltanto i più diversi contesti operativi, i contesti del fare, ma anche quelli conoscitivi, i contesti del pensare, incidendo sugli stessi fini di chi utilizza i nuovi mezzi, con particolare riferimento a quei fini che hanno a che vedere con la identità di ognuno e con i tradizionali processi di riconoscimento di sé e degli altri.
Anche il cosiddetto digitale, che sembrava destinato a una consacrazione senza se e senza ma, sta attraversando un momento altrettanto problematico, come dimostra l’ultimo e interessantissimo fascicolo cartaceo della edizione americana di “MIT Technology Review”, dedicato appunto a «come le nuove generazioni usino la tecnologia per celare, rivelare e formare la propria identità».
Già un interrogativo del genere lascia perplessi: ma non si era detto che la disponibilità di più mezzi avrebbe consentito il perseguimento e se possibile il conseguimento di più fini?
Certamente, oggi si hanno a disposizione tanti strumenti generici e specifici solo un paio di generazioni fa addirittura impensabili, soprattutto nel campo della mobilità e della comunicazione. Ma il problema proposto dalla nostra Casa Madre ha a che vedere con qualcosa di più personale e di più delicato, come appunto la identità: ciò che si è e ciò che ci si sente di essere.
La risposta che emerge dai numerosi articoli che compongono il fascicolo in questione ha qualcosa di inaspettato e forse di paradossale. Se ci si poteva aspettare una ipertrofia mediatica e una ipotrofia relazionale dei tradizionali passaggi identitari, quelli per cui si diventa progressivamente qualcuno, le ricerche più recenti e le riflessioni che ne sono conseguite prospettano una condizione sostanzialmente intermedia: in realtà tendenzialmente non siamo troppo o troppo poco, ma siamo molti.
Lo sottolinea nella sua presentazione il direttore della rivista Gideon Lichfield: «Crescere con la tecnologia, come ha fatto la mia generazione, significa mettere costantemente in discussione il sé, coglierlo nella sua molteplicità, mettere a fuoco le nostre contraddizioni. Questa considerazione riassume perfettamente la esigenza di destreggiarsi tra le proprie identità, su Facebook, Snapchat, TikTok, Instagram e altre piattaforme, ognuna con le proprie norme non scritte di condivisione ed espressione personale. Ma penso che qualifichi anche lo sforzo degli adulti che cercano di capire il ruolo della tecnologia nella vita dei propri figli: come gli onnipresenti dispositivi digitali influenzino il modo in cui i giovani imparano, fanno amicizia, comprendono il mondo e si capiscono tra loro».
Ma forse non risiede in questa moltiplicazione identitaria, in questa deriva proteiforme la difficoltà maggiore. Risiede piuttosto nella intromissione di identità fittizie, nel senso etimologico di artefatte, se non di mistificate, che impediscono alla personalità giovanile di entrare in diretto rapporto con gli altri e con il contesto in cui vive e cresce.
Così si spiegherebbero le paure diffuse secondo cui la tecnologia starebbe privando i più giovani di un vero contatto umano e starebbe deformando i loro processi inculturativi sotto la pressione della competizione per la popolarità nei social media.
Ci sono prove crescenti che la tendenza ad attrezzare le scuole con dispositivi digitali non ha aiutato in maniera signficativa i bambini a imparare e può persino ostacolare quelli più incerti e vulnerabili.
Il rischio è quello di trasformare i bambini in macchine per superare prove ripetitive e standardizzate. Non a caso, alcuni studenti di filosofia – precisa Lichfield – sono rimasti sorpresi nello scoprire quanto siano migliorati i loro studi e la loro vita sociale quando hanno rinunciato temporaneamente ai loro telefoni cellulari, anche se per lo più non riuscivano a ipotizzare di rinunciarvi per sempre.
A parte l’invito a leggere direttamente le testimonianze e le valutazioni contenute nel fascicolo a cui stiamo facendo riferimento (gennaio-febbraio 2020), sarà opportuno, in conclusione, considerare come, anche condividendo le preoccupazioni prevalenti, non si debba dimenticare che la realtà individuale e sociale si è sempre articolata in quelli oggi definiti giochi di ruolo, in cui un poco si riflettono le esperienze e le capacità personali e un poco si viene trascinati verso scenari e sistemi di regole di cui non si può fare diretta esperienza.
Non diversamente, si parva licet componere magnis, risuonava nel medioevo la polemica tra ragione e fede o nella modernità il dibattito su ideologia e falsa coscienza. Non si tratta di affermare che male comune sia mezzo gaudio; piuttosto che in qualsiasi condizione e situazione il male e il gaudio vanno comunque misurati sul proprio sia pure oscillante e precario interesse e non sulle aspettative che gli altri, genitori e figli, sembrano sempre cercare di soddisfare “per procura”. Fosse pure una procura mediatica e tecnologica.
(gv)