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    I media, l’audience, la Rete

    Nessuno sa realmente quante persone visitino i siti Web. Questa carenza d’informazione rappresenta un problema per il futuro del giornalismo e dei media in generale. Una startup di San Francisco e Google stanno lavorando su alcune soluzioni per giungere a valutazioni più attendibili.

    di Jason Pontin 

    Nel 2006, nel mese di agosto, Roger McNamee fece un investimento in “Forbes” in parte perché credeva che il gruppo editoriale avesse un grande seguito nel Web. McNamee è uno dei fondatori di Elevation Partners, un’azienda di private equity di Silicon Valley, specializzata in audaci investimenti nei settori dei media e della tecnologia, che annovera tra i suoi soci dirigenti Bono, il cantante del gruppo rock degli U2; sul palco a EmTech, l’annuale conferenza di “Technology Review”, Bono ha detto: «Sia chiaro. Non sto investendo in “Forbes” perchè è un business con molti rami secchi».

    Allora, Jim Spanfeller, amministratore delegato di Forbes.com, sosteneva che più di 15 milioni di lettori in tutto il mondo avessero visitato il suo sito a febbraio, rendendo “Forbes” il leader mondiale tra i siti commerciali. A sostegno delle sue affermazioni riportava una ricerca di ComScore Media Metrix, uno dei più importanti fornitori indipendenti di dati sul traffico Web. Le cifre indicavano risultati incoraggianti: i registri interni del server di Forbes.com mostravano un traffico Web ancora più sostenuto. Fu imbarazzante, quindi, quando ComScore annunciò di aver cambiato i metodi per valutare il numero di utenti e che poco più di sette milioni di persone avevano visitato Forbes.com a luglio. Questi dati collocavano l’utenza on line di “Forbes” al di sotto di quella del Dow Jones (i cui siti includono WSJ.com) e della CNN Money (i cui siti includono “Fortune”). Alcuni maligni resoconti giornalistici avanzarono l’ipotesi che McNamee avesse sovradimesionato – o fosse addirittura stato raggirato – il suo investimento, che veniva indicato tra i 250 e i 300 milioni di dollari.

    A distanza di oltre due anni, McNamee dichiara di aver sempre saputo che ci fossero forti discrepanze tra quanto mostravano i registri interni del server di Forbes.com e quanto era riportato dai servizi indipendenti. “La notizia mi avrebbe preoccupato se mi avesse colto di sorpresa”, afferma McNamee. Invece, il fondatore di Elevation Partners sostiene di aver investito senza un’idea precisa del numero di utenti di Forbes.com: «Esaminai tutti gli altri indicatori e non erano incoraggianti. Complessivamente, mi trovai a vedere i dati da un punto di vista diverso. Investivo in “Forbes” perché ritenevo che il mercato fosse male utilizzato e che i suoi manager avessero fatto meno errori di tutti gli altri» (ancora oggi McNamee rifiuta di dire quanto ha pagato per la sua partecipazione).

    Ancora non c’è accordo sul numero di lettori di Forbes.com. “Secondo ComScore, abbiamo dai 6 ai 7 milioni di visitatori al mese; i nostri registri dicono dai 18 ai 20 milioni”, dice Spanfeller. Ma, anche se la differenza tra calcoli indipendenti e interni risulta, per una varietà di ragioni, particolarmente accentuata nel caso di “Forbes”, la confusione sulle dimensioni dell’audience on line è universale.

    In realtà nessuno sa quante persone visitano i siti Web. Non esiste alcun fornitore indipendente di dati sull’entità dell’audience che goda della fiducia di tutti. I registri interni del Web esagerano i numeri dell’audience. Questo aspetto colpisce molte altre persone, oltre agli investitori come McNamee, che sono preoccupate di non avere strumenti validi per valutare le aziende dei nuovi media. I problemi sono di natura tecnica, aggravati da un’oscura terminologia settoriale, ma coinvolgono chiunque veda con ansia il futuro dei media, quali la stampa, e le trasmissioni radiotelevisive che diminuiscono la loro sfera d’influenza.

    Fortunatamente, una startup californiana e Google stanno sperimentando nuove e più efficaci strade per misurare l’audience Web.

    Il prezzo del buon giornalismo

    Ma chi si preoccupa per qualcosa di così sfuggente e arcano come la misurazione dell’audience? Il problema è che con i contenuti gratuiti, come nel caso della maggior parte dei siti Web, l’unica forma di finanziamento del giornalismo di qualità – o qualsiasi altro contenuto di valore – è la pubblicità. Per la quasi totalità delle aziende dei nuovi media, l’annuncio pubblicitario o i banner rappresentano la principale fonte di entrate operative. L’incapacità diffusa di arrivare a un’intesa sui numeri dell’audience impedisce lo sviluppo del display advertising, vale a dire di spazi pubblicitari a pagamento su display (banner e video).

    Ogni anno i pubblicitari investono miliardi di dollari on line; eMarketer, un’azienda di ricerche di mercato, prevede che nel 2009 la spesa si attesterà sui 25,7 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti. Gli operatori di mercato studiano le audience Web per decidere verso quali siti indirizzare il loro denaro: provano a indovinare quanti utenti visiteranno il sito ogni mese, le varianti demografiche di questi visitatori, le durate dei collegamenti, quante pagine saranno viste e la relazione, sempre che ve ne sia una, tra gli annunci pubblicitari e il comportamento dell’utente. Chi compra pubblicità – gli acquirenti di spazi pubblicitari sui giornali o di tempo alla radio e alla televisione e chi elabora la strategia di comunicazione, i cosiddetti media planners – utilizzano queste informazioni per la scelta dei siti che ospiteranno le loro campagne pubblicitarie. Gli editori, inoltre, si affidano a questi dati per stabilire le tariffe pubblicitarie.

    Comunque, la correlazione tra le dimensioni dell’audience Web e il valore per gli inserzionisti non è diretto. Nella stampa, la relazione tra dimensioni dell’audience e spesa pubblicitaria è semplice, perché i prezzi degli annunci deriva in gran parte dalla diffusione di copie certificata dall’editore; gli strateghi pubblicitari comprano l’intera audience. On line, il procedimento è più complesso in quanto la diffusione dell’annuncio pubblicitario su display è soggetta a variabilità, nel senso che è legata a impressioni pubblicitarie, vale a dire a quante volte una striscia appare in un punto particolare del sito Web. “I numeri dell’audience non cambiano di molto le mie decisioni d’acquisto”, spiega David L. Smith, direttore generale e fondatore di MediaSmith, un’agenzia per l’acquisto e la progettazione di media interattivi, tra i cui clienti figurano il National Geographic Channel e Sega. “Se acquistassimo l’intera audience di un sito, sarebbe differente. Ma gran parte delle volte ci ritroviamo a comprare pacchetti di impressioni pubblicitarie”.

    Jim Spanfeller, ex presidente e attuale membro del comitato direttivo del Interactive Advertising Bureau (IAB), l’associazione industriale che rappresenta i venditori di pubblicità on line, è d’accordo con Smith sul fatto che le misurazione inaffidabili dell’audience non influenzino direttamente la spesa pubblicitaria, almeno per quel che riguarda i siti più grandi: “I siti più affermati come Forbes.com vendono sulla base di impressioni pubblicitarie. Il problema sorge quando un’agenzia vuole spostare risorse da un settore, come la stampa o la televisione, al Web”. A quel punto, continua Spanfeller, gli strateghi pubblicitari non possono dimostrare ai loro clienti che l’audience Web replica o integra gli ascolti che i pubblicitari raggiungono con i media tradizionali. “Sono necessari numeri credibili per poter fare un confronto tra media”, afferma Spanfeller. Inoltre, le misurazioni approssimative dell’audience “danneggiano i siti più piccoli con audience more targeted più mirate che non hanno una grande quantità impressioni pubblicitarie”, vale a dire il tipo di siti che secondo Spanfeller, e molti altri esperti digitali, occupano “la lunga estremità della coda”.

    In realtà, la conseguenza reale del problema della misurazione dell’audience è un effetto di congelamento sul passaggio della pubblicità dai vecchi ai nuovi media. Nel frattempo, un’altra forma di pubblicità on line sta crescendo rapidamente, ma non è quella che gli editori vendono. I numeri parlano chiaro. La spesa in “parole chiave” o alle pubblicità mirate collegate alle ricerche in rete degli utenti (search advertising, ossia i collegamenti sponsorizzati che appaiono vicino ai risultati della ricerca su Google.com e altri siti di ricerca) è cresciuta del 21 per cento nel 2008, in gran parte a spese della stampa, delle televisioni locali, della radio e della pubblicità che appare sulle Pagine Gialle; ora rappresenta il 45 per cento di tutti gli annunci pubblicitari on line. Questo cambiamento è legato alla indubbia efficacia delle parole chiave: gli inserzionisti pagano direttamente per numero di contatti o acquisti. Non c’è alcuna necessità di fare riferimento ad aspetti controversi come le dimensioni o la composizione dell’audience Web. Questo incremento della pubblicità legata alle parole chiave ha favorito principalmente le aziende di ricerca. Al confronto, la pubblicità su display venduta dalle media companies è cresciuta solo del 4 per cento nello stesso anno.

    Il 4 per cento potrebbe sembrare un buon risultato, ma non si deve dimenticare che allo stesso tempo le entrate pubblicitarie della carta stampata stanno rapidamente crollando. Per esempio, gli annunci pubblicitari sui quotidiani scenderanno dai 50,8 miliardi di dollari del 2007 ai 45 miliardi di dollari del 2012, secondo l’azienda di ricerca Borrell Associates. Anche Forbes è all’angolo. Come azienda privata non divulga le sue entrate, ma il numero di pagine pubblicitarie sulla sua rivista stanno diminuendo dal 2000. Nel frattempo, i ricavi pubblicitari on line dell’azienda sono valutati tra i 55 e i 70 milioni di dollari, una stima che Spanfeller non contesta. Non si tratta comunque di un grande risultato per una pubblicazione con un’audience di 20 (o almeno 7!) milioni di persone. Nei giorni gloriosi della pubblicità su stampa, le pubblicazioni con molto meno lettori guadagnavano cifre simili, se non superiori: “Red Herring”, di cui sono stato caporedattore per alcuni anni, ricavava più di 50 milioni di dollari dalla pubblicità su stampa nel 2000 e i suoi lettori erano 350.000, secondo Ted Gramkow, l’ex editore della rivista.

    La pubblicità su display aveva lo scopo di finanziare l’imponente passaggio di lettori ai nuovi media. Non sta raggiungendo questo risultato. Per oltre 100 anni la pubblicità ha sostenuto economicamente gli editori e l’alto livello della produzione giornalistica; oggi, questi flussi pubblicitari sono stati indirizzati alle aziende di ricerca che non creano altro che codici. Come afferma McNamee: “Trovare un rimedio è un passaggio obbligato per quegli editori che vogliono continuare a creare prodotti di qualità”.

    L’adozione di un sistema simile all’Auditel

    Cosa non funziona con i sistemi attuali di misurazione dell’audience Web? Molto.

    ComScore e Nielsen Online, una sezione della Nielsen Company, sono i leader indiscussi nel campo della misurazione dell’audience e della vendita a inserzionisti, agenzie ed editori dei dati ricavati da questi calcoli.

    Queste aziende indipendenti di misurazione dell’audience esistono perché i registri interni degli editori non riescono a quantificare l’attività dell’utente su un dato sito. “Quando gli editori usano i loro file di registro, i limiti appaiono evidenti”, sostiene David Smith. A suo parere le carenze di questi registri interni (un sistema che qualcuno definisce “misurazione censuaria”) includono, in ordine crescente di impatto, la sopravalutazione di utenti con più computer o browser Web; il conteggio delle “visite meccaniche” di bot Web e programmi spider per localizzare nuove risorse (per esempio, quando Google setaccia il Web per valutare la popolarità dei siti) come i contatti di utenti reali; il calcolo di chi periodicamente elimina i cookies con codice identificativo che i siti nascondono nei browser in modo da riconoscere i visitatori che ritornano.

    Per raggiungere stime di audience più accurate, ComScore e Nielsen Online si affidano a una metodologia ereditata dalle ricerche sull’audience televisiva: il panel o gruppo rappresentativo. Nielsen, per esempio, ha reclutato quasi 30.000 collaboratori per il suo prodotto di punta, chiamato Netview. Chi partecipa accetta di avere il traffico Web monitorato attraverso interviste e “contatori”, o spyware, istallati sui loro personal computer.

    Ma un sistema adatto al mondo della televisione non funziona altrettanto bene sul Web. “I gruppi rappresentativi sono sempre di difficile composizione”, spiega Spanfeller, “ma sul Web diventano ancora più problematici. I loro dati sono sottostimati dal 30 al 50 per cento”. La realtà è che gli editori non possono assolutamente accettare audience basse come i dati dei panels suggeriscono.

    Il principale problema della ricerca dell’audience con il metodo dei gruppi rappresentativi, almeno secondo Spanfeller e Smith, è la impossibilità di valutare con accuratezza il numero di utenti che si collegano ai siti sul posto di lavoro, perché i responsabili della tecnologia informatica delle aziende non vogliono istallare spyware sui loro computer. A volte, i partecipanti al gruppo mentono agli intervistatori. Inoltre, concordano entrambi, c’è un palese “errore di campionario” (che gli statistici considerano una forma di occultamento che nasce dalla scelta di un campione troppo piccolo rispetto alla popolazione complessiva): con all’incirca 30.000 partecipanti al gruppo, le audience dei siti più piccoli sono spesso sottostimate o addirittura non registrate.

    Il problema finale con le misurazioni basate sul gruppo rappresentativo è che, a tutt’oggi, né Nielsen né ComScore sono state controllate da una terza parte indipendente. Chi può dire, si chiedono Spanfeller e Smith, quanto siano realmente validi i metodi di presentazione dei dati di queste aziende?

    Nielsen difende il suo sistema. “Garantisco io. Se i nostri numeri fossero più alti dei dati del server degli editori, allora si potrebbe dire che non siamo più credibili”, sostiene Manish Bhatia, presidente dei servizi globali di Nielsen Online. Bhatia fa notare che Nielsen vende prodotti, come SiteCensus, che istallano etichette software sui siti Web degli editori e controllano i registri del server. “Insieme con i panels, risultano utili”, continua Bhatia, “ma i gruppi rappresentativi sono più affidabili in quanto forniscono informazioni di tipo demografico e spiegano cosa fanno gli utenti dopo aver visto una pubblicità on line”.

    Da parte sua, ComScore riconosce che i registri dei server giocano un ruolo importante: mostrano su quali pagine Web un editore è intervenuto e quando. Ma, al pari di Nielsen, ComScore sostiene che solo i gruppi rappresentativi garantiscono una misurazione accurata dell’audience e della sua articolazione demografica. “I server non quantificano l’utenza”, afferma Andrew Lipsman, responsabile dell’analisi industriale di ComScore.

    Perché Nielsen e ComScore sono così legate ai panels? Secondo David Smith, “le aziende hanno investito parecchi soldi nelle loro metodologie e non è facile fare loro ammettere che hanno problemi”.

    Roger McNamee è più schietto. “Capisco perché Nielsen è così pessimista”, egli dice. “Ma perché non si è trovato qualche strumento migliore? Esistono serie opportunità di mercato per chiunque disponga di capitali e voglia finanziare un sistema che certifica l’attuale traffico”.

    “Ci vorrebbe un Omniture indipendente”, afferma Spanfeller, riferendosi ai software analitici dei siti Web che molti editori (tra cui “Technology Review”) utilizzano per registrare il loro traffico.

    I sistemi di misurazione vengono via via perfezionati

    Di recente ho visitato Quantcast, una startup con sede a San Francisco che sta lavorando a un servizio di questo tipo. Fondata nel 2005 e finanziata con 26 milioni di dollari, in particolare da Polaris Ventures e Founders Fund, l’azienda ritiene che il suo sistema, lanciato nel 2006, superi i limiti delle tradizionali misurazioni dell’audience Web basate sul gruppo rappresentativo.

    Ho incontrato uno dei fondatori dell’azienda Konrad Feldman, il giovane amministratore delegato inglese dai capelli rossi, nelle sede centrale di Quantcast, che domina gli Yerba Buena Gardens e il Moscone Center. In una grande sala delle riunioni con un pavimento in cemento, decorato secondo i precetti del minimalismo estremo del capitalismo di ventura, mi ha chiesto se “Technology Review” fosse “quantificata”, vale a dire se i suoi visitatori on line venissero registrati dai tag software dell’azienda. Dopo aver ricevuto conferma da parte nostra che il sito era stato “misurato” per qualche tempo, Feldman ha aperto il suo portatile e ha cercato il nostro URL su Quantcast.com.

    Un’elegante applicazione relativa ai dati sull’audience è apparsa immediatamente con le seguenti informazioni: TechnologyReview.com aveva 342.000 “utenti complessivi” e 205.000 “utenti americani”. Queste cifre, che si riferivano ai visitatori mensili del nostro sito, non erano basse come quelle riportate dalle tradizionali aziende indipendenti di misurazione dell’audience, ma apparivano ambigue: per l’intero 2008 Omniture aveva parlato di 650.000 visitatori unici su TechnologyReview.com ogni mese. Venimmo anche a sapere che il 32 per cento dei lettori di TechnologyReview.com guadagnava più di 100.000 dollari l’anno e che il 24 per cento aveva un titolo post laurea, il che suonava credibile (un rapido sguardo a Forbes.com, che non è stato sottoposto a misurazioni, ma del quale la startup aveva estrapolato i numeri, indicava che il sito commerciale era stato contattato da 4,9 milioni di utenti americani, che erano più ricchi dei lettori di Technology Review.com, anche se non possedevano lo stesso livello di istruzione. Non disponendo di misurazioni precise, Quantcast non era in grado di stabilire l’audience globale di Forbes.com).

    Il servizio di Quantcast, come quello di altre aziende di misurazione dell’audience, si avvale dei gruppi rappresentativi o, più precisamente, di dati simili a quelli forniti dai panel sotto forma di “campioni di riferimento”, forniti alla azienda da strutture indipendenti, tra le quali aziende di ricerche di mercato, provider di servizi Internet e aziende di piattaforme per applicazioni personalizzate. Questi metodi statistici creano un modello di base del traffico Web negli Stati Uniti. Ma quando gli editori istallano i tag di Quantcast sui loro server, l’azienda registra i software che analizzano i contenuti di rete (spider), i programmi che automatizzano le operazioni (bot), gli utenti con più computer e le operazioni di eliminazione dei cookies. Le due metodologie sono messe insieme usando uno strumento che Quantcast definisce “algoritmo d’inferenza di massa” creato con la collaborazione di due matematici della Stanford University e messo a punto da sette esperti di matematica che lavorano nell’azienda. Questa analisi algoritmica delle misurazioni effettuate con server e con il sistema della ricerca con gruppi rappresentativi è unica nel calcolo dell’audience Web (anche se Nielsen normalmente combina le due metodologie con un servizio chiamato VideoCensus, che registra i movimenti degli spettatori di video on line). L’informazione sull’audience che se ne ricava, afferma Feldman, è molto più affidabile di quella offerta da ComScore o Nielsen.

    “Gli editori e i pubblicitari hanno usato la ricerca basata sui gruppi rappresentativi per quasi 75 anni”, sostiene Feldman. “Si è pertanto stabilita una consuetudine ad agire in questo modo. Ma, nel mercato c’è comunque una diffusa consapevolezza che è giunto il momento di cambiare qualcosa”.

    Poiché l’informazione di Quantcast sull’audience è libera (mentre le misurazioni di ComScore e Nielsen non lo sono), l’azienda spera di fare profitti con gli editori che usufruiscono di Media Planner, un servizio lanciato nel maggio del 2008 che aiuta gli strateghi pubblicitari a investire i contanti dei loro clienti. Anche se MediaPlanner è per il momento completamente gratuito, Quantcast vuole espandere il servizio in modo che possa descrivere con accuratezza gli aspetti demografici dell’audience dei siti Web, un tipo di informazioni per cui, secondo l’azienda, i siti stessi sarebbero disposti a pagare. Feldman spiega l’ingegnosa idea: “Chi si occupa delle vendite a TechnologyReview.com non riuscirà mai a parlare a tutti coloro che sono interessati alla vostra audience. Ma se si può mostrare nei particolari l’audience agli acquirenti, si può creare un sistema in cui chi compra può scoprire quelle componenti dell’audience che trova particolarmente di valore”. Feldman dice che Media Planner permette a chi acquista media di trovare l’audience appropriata, “ma sono gli editori che dovrebbero pagare, perché sono quelli che prendono le quote più alte per i loro segmenti d’audience”. Feldman è ancora più ambizioso e spera che i dati sull’audience di Quantcast, insieme alle impressioni pubblicitarie, daranno nuova linfa a inserzionisti, agenzie pubblicitarie ed editori che si tradurrà in pubblicità su display più valide e più efficaci.

    Feldman e il vicepresidente Paul Sutter, uno dei fondatori dell’azienda, non affrontano il problema della misurazione dell’audience come gli esperti dei media. Feldman, un informatico, ha contribuito alla creazione di Searchspace (ora Fortent), che ha prodotto software per aiutare le aziende di servizi finanziari a scoprire il riciclaggio di denaro e le fonti di finanziamento dei terroristi. Sutter, un esperto di architetture di computer ad alte prestazioni, ha fondato l’azienda Orbital Data (successivamente acquistata da Citrix), che si occupava di ottimizzazione delle reti; la sua esperienza è stata preziosa quando Quantcast si è trovata a elaborare le migliaia di terabyte di dati che aveva raccolto.

    Quando si iniziò a parlare della futura azienda, dice Sutter, «facevamo le domande più semplici e fu subito chiaro che il linguaggio dei media planner e di chi acquistava spazi pubblicitari non aveva nulla a che vedere con il linguaggio pubblicitario su Internet (costo per clic e così via). Agli strateghi pubblicitari piaceva parlare di audience, statistiche demografiche e stili di vita. La risposta fu quindi il quantcasting, vale a dire un modo per raggiungere le persone che si vogliono raggiungere». Attualmente, l’azienda dichiara che 85.000 “editori”, nell’accezione più vasta della parola, hanno scelto di sottoporsi alle misurazioni di Quantcast, tra cui il Disney-ABC Television Group, NBC, CBS, MTV Networks, Fox, Business Week e Time’s SI.com e CNNMoney.com.

    Quantcast non è l’unica azienda che ha avuto la brillante idea di rinnovare il sistema di misurazione dell’audience basato sul gruppo rappresentativo. A giugno del 2008, Google ha annunciato un nuovo servizio, Google Ad Planner, che sfrutta la dettagliata conoscenza del traffico Web da parte dell’azienda per fornire alle parti interessate una raffigurazione più accurata dell’audience Web. Wayne Lin, responsabile di prodotto di Ad Planner, mi ha mostrato il servizio quando ho visitato GooglePlex, il quartier generale di Google, a Mountain View, in California. Poiché Google possiede DoubleClick, uno dei due sistemi dominanti di distribuzione pubblicitaria, i dati dell’audience Web possono essere uniti ai sistemi di diffusione pubblicitaria in modo che i media planner sappiano quali sono i siti più adatti per i loro avvisi pubblicitari. La combinazione dovrebbe incontrare il convinto gradimento degli strateghi pubblicitari e degli operatori di mercato, dice Lin.

    Che ne pensano i media planner dei due nuovi servizi di misurazione dell’audience? “A Mediasmith abbiamo adottato Quantcast, ma non è abbastanza completo da poterlo definire la soluzione definitiva”, spiega David Smith, che per un breve periodo ha contribuito, in qualità di consulente, alla nascita della startup. La difficoltà, secondo Smith, è che l’informazione sull’audience del sito non sarà realmente utile – per non parlare della sua diffusione – finchè un maggior numero di editori non accetterà di sottoporsi alle misurazioni. Jim Spanfeller concorda. “Devono essere costretti ad affrontare seriamente il problema”, egli dice. “Ma tutto il meccanismo ricorda da vicino la storia dell’uovo e della gallina”.

    Per quanto riguarda Ad Planner di Google, Smith dice che “le agenzie non lo sosterranno mai”. Smith, come tutti quelli con cui ho parlato, sostiene che gli strateghi pubblicitari si opporranno al sistema informativo sull’audience di Google perché non vogliono che un’azienda acquisisca il dominio totale sulla pubblicità on line: se Ad Planner fosse adottato su larga scala, Google venderebbe parole chiave attraverso la sua piattaforma pubblicitaria, AdWords, e banner pubblicitari grazie alla rete di AdSense; i prodotti pubblicitari sarebbero veicolati con DoubleClick e non mancherebbero “consigli” ai media planner su dove investire i loro dollari in pubblicità.

    Ad Planner non possiede una serie di caratteristiche importanti che un’agenzia pubblicitaria pensa di trovare in un servizio di misurazione dell’audience. Secondo Smith, non offre né dati demografici dettagliati, né una spiegazione convincente delle sue metodologie. Patrick Viera, stratega digitale di TechnologyReview.com e responsabile della pubblicità per la West Coast, ha commentato in modo sprezzante quando gli ho chiesto la sua opinione: “In effetti, gli ho dato un’occhiata. Non fa quello che gli si chiede. è solo uno strumento per vendere AdSense”.

    In realtà, spiega Smith, si è ancora alla ricerca di qualcosa di nuovo. “Gli editori sono costretti a usare misurazioni di terze parti indipendenti che, come nel caso di ComScore e Nielsen, possono sottostimare l’audience. La verità è probabilmente nel mezzo. Per questa ragione nuove aziende come Quzntcast hanno una carta da giocarsi”.

    Le distorsioni del sistema restano insolute

    Ma né Quantcast, né Google, né i prodotti più avanzati di ComScore e Nielsen Online potranno, da soli o in combinazione, far uscire dalla crisi il settore della pubblicità su display e garantirne lo sviluppo futuro dell’universo pubblicitario.

    Qualsiasi strumento di misurazione dell’audience verrà adottato, dovrà essere validato da una parte indipendente. Quantcast, ComScore e Nielsen Online (ma non Google) verranno sottoposti ai controlli del Media Rating Council (MRC), che è stato istituito dal Congresso americano negli anni 1960 per verificare e accreditare i rating degli enti radiotelevisivi. L’accreditamento appianerà le dispute sulle diverse metodologie di misurazione, secondo George Ivie, amministratore delegato di MRC: “Permetterà di non avere cifre troppo discordanti e di rendere trasparenti le differenze tra il sistema censuario e quello dei gruppi rappresentativi”.

    Comunque, oltre al disaccordo sulle dimensioni dell’audience Web, il sistema pubblicitario on line soffre di profondi problemi strutturali che devono essere affrontati prima che gli strateghi pubblicitari e i loro clienti investano cifre significative. Le problematiche riguardano una serie di aspetti tecnici, ma secondo David Smith il vero dato di fondo è l’assenza di strumenti automatici, condivisi da tutti, per creare, vendere, distribuire e verificare la prestazione degli annunci pubblicitari on line.

    Una soluzione soddisfacente richiederà diversi anni. “Il settore ha solo tredici anni”, spiega Smith. “è cresciuto rapidamente con pochi standard per sei anni, poi è crollato, con poca ricerca e sviluppo per quattro anni, e ora sta ritornando ai giusti livelli di standard e R&S negli ultimi tre”.

    Tutti riconoscono cha la confusione generale sull’audience Web sia il motivo per cui la pubblicità on line non si è sviluppata in modo adeguato. “è una situazione paradossale”, ha scritto Roger McNamee durante uno scambio di opinioni su un servizio di messaggistica sul network sociale Facebook. “Vedi qualcosa che sta arrivando da un miglio di distanza, ma non riesci a trovare il modo di affrontarlo”.

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