In occasione delle attuali celebrazioni del cinquantenario dello sbarco sulla Luna, ci è parso significativo ricordare, con i maggiori protagonisti, a cominciare da Neil Armstrong, quelli che hanno volato intorno alla Luna, senza però mettervi piede.
di Gian Piero Jacobelli
A molti sarà capitato di compiangere Michael Collins, l’astronauta nato a Roma dove il padre era addetto militare all’ambasciata statunitense, il quale insieme a Neil Armstrong e Buzz Aldrin portò l’Apollo 11 sulla Luna, ma dovette rimanere in orbita mentre i suoi due compagni scendevano sul suolo lunare e si accaparravano il merito di quel primo piccolo e grande passo.
Tuttavia, nel fragore, talvolta perfino eccessivo, delle attuali celebrazioni per il cinquantenario di quella che si continua a chiamare, forse non a torto, la conquista della Luna, il destino di Collins ci appare meno cinico e baro di quanto non ci fosse apparso allora, quando Tito Stagno e Ruggero Orlando si disputavano in cronaca diretta il primato dell’annuncio.
Anzi, tende oggi ad assumere un valore quasi emblematico, sia per tutti noi, che sulla Luna non ci siamo stati, sia per quella marcia magnifica e progressiva a cui alludeva Armstrong e che invece si è rivelata assai più incerta e problematica di quanto non si pensasse allora.
In effetti, dalla conclusione del programma Apollo, nel 1972, l’uomo non ha più messo piede sulla Luna, rendendo evidenti, da un lato, le difficoltà logistiche e tecnologiche che un programma di colonizzazione avrebbe comportato e, dall’altro lato, le ancora scarse motivazioni, sia scientifiche, sia economiche, che avrebbero potuto ridare fiato a una impresa già costata non pochi sacrifici, anche in termini di vittime umane, quelle note e quelle rimaste ignote.
Né bisogna dimenticare i mutati contesti politici, che nel 1961 spinsero l’allora presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, a investire tante risorse sulla Luna, in quegli anni Sessanta che segnarono molti passaggi cruciali negli scenari nazionali – Kennedy venne assassinato l’anno dopo – e internazionali, dove lo spazio stava acquisendo il senso di un nuovo confronto con l’avversario sovietico.
Proprio alla presenza dell’avversario – sia detto per inciso – si deve la famosa battuta di Umberto Eco relativa alla cosiddetta teoria del complotto, secondo cui la discesa sulla Luna sarebbe stata una messa in scena realizzata in un grande studio cinematografico, per affermare una priorità che appariva sempre più difficile da conseguire nei fatti. Eco affermò che la conquista della Luna doveva essere vera perché i sovietici, i quali pure ne avevano la possibilità e l’interesse, non dissero che era falsa.
Ne è scaturita una interminabile logomachia, anche a colpi di narrazioni letterarie e cinematografiche, ma soprattutto ne è scaturito un vero e proprio criterio di verità, basato, come direbbero i filosofi, più su un principio relazionale che su un principio referenziale.
Che tutto sia relativo lo si potrebbe dedurre anche guardando con gli occhi di oggi le “macchine” utilizzate per le missioni Apollo, da cui si trae una duplice, contrastante impressione.
Da un lato, si può rilevare una tecnologia ormai largamente superata, non solo per la sua “materialità”, particolarmente evidente nelle interfacce di relazione tra gli operatori e le macchine, basate ancora su azioni manuali che vengono progressivamente sostituite da azioni a distanza, della parola, dello sguardo e al limite dello stesso pensiero. Per esempio, nel rientro sulla Terra Aldrin ruppe accidentalmente un interruttore necessario per attivare il motore del modulo lunare, riuscendo a ripararlo molto artigianalmente. Alcuni hanno anche sottolineato come il computer di bordo utilizzato nel programma Apollo fosse molto meno potente dei nostri attuali computer da tavolo, con una capacità di calcolo comparabile a quella dei primi personal computer commercializzati negli anni Settanta.
Dall’altro lato, quella stessa tecnologia, proprio perché così arretrata, fornisce una eloquente testimonianza della velocità del progresso tecnologico, riproponendo oggi la Luna e la sua conquista in una dimensione che va oltre la Luna stessa: come una piattaforma di lancio verso Marte, che nonostante le difficoltà di comunicazione sembra offrire maggiori opportunità di “colonizzazione”, e verso lo spazio profondo.
Tanto più significativa ci appare, dunque, la “solitudine” di Collins e degli altri astronauti che restarono nella navicella spaziale orbitante intorno alla Luna: Richard Gordon dell’Apollo 12, Stuart Roosa dell’Apollo 14 (l’Apollo 13 ebbe un’avaria e dovette rientrare senza sbarcare sulla Luna), Alfred Worden dell’Apollo 15, Thomas K. Mattingly dell’Apollo 16, Ron Evans dell’Apollo 17, l’ultima missione con equipaggio umano, i quali però hanno contemplato più a lungo dei loro colleghi la faccia nascosta della Luna, senza dubbio l’immagine più straordinaria del Ventesimo secolo, senza diventarne degli invasori, né tanto meno dei conquistatori.
Forse non a caso, proprio Collins avrebbe ideato l’emblema dell’Apollo 11, con la terra in lontananza e l’aquila dalla testa bianca, tradizionale emblema degli Stati Uniti, che scende sul suolo lunare con un ramo di ulivo negli artigli, modificando la precedente proposta, con il ramo di ulivo nel becco, troppo aggressiva e minacciosa.
Se le prime fotografie dell’altra Luna furono scattate dalla cosmonave sovietica Luna 3, nell’ottobre 1959, toccò all’equipaggio dell’Apollo 8, composto dagli astronauti Frank Borman, William A. Anders e Jim Lovell, di osservarla direttamente, il 24 dicembre 1968.
La sorprendente sequenza iconografica ha trovato ulteriori implementazioni quando, il 3 gennaio 2019, la missione cinese Chang’e 4 è scesa per la prima volta sulla faccia nascosta senza astronauti a bordo. Ma proprio perciò ribadendo la dimensione protesica di una tecnologia che si sostituisce all’uomo, perché in prospettiva l’uomo possa sostituirsi alla tecnologia. Chi vivrà, vedrà.
(gv)