Una splendida mostra dedicata dal parigino Musée d’Art e d’Histoire du Judaisme alla leggenda del Golem non solo evidenzia quanto la tradizione ebraica abbia influenzato la cultura occidentale, ma suggerisce stimolanti motivi di riflessione in merito alle tensioni che attraversano l’odierno dibattito sui cosiddetti limiti della tecnologia.
di Gian Piero Jacobelli
Si va alle mostre per passare il tempo, per distrarsi, ma a volte si va alle mostre per recuperare il tempo passato, per concentrarsi sul senso delle umane vicende, interrogandosi su come sono andate e su come potranno andare.
Non tutte le mostre, ovviamente, ma alcune più delle altre offrono questa opportunità. In questa lunga estate calda, più di altre va segnalata la concentrata e insieme interrogativa mostra dedicata dal parigino Musée d’Art e d’Histoire du Judaisme al Golem (Golem. Avatars d’une légende d’argile), il mostruoso perturbante implicito in ogni creazione possibile, da quella tecnologica a quella artistica, che ha attraversato la cultura occidentale dall’inizio alla fine.
Dall’inizio alla fine, appunto. La narrazione più diffusa colloca storicamente la nascita del Golem nella seconda metà del Cinquecento, quando il celebre rabbino di Praga Yehoudah Loew, per difendere la comunità ebraica dalle ricorrenti persecuzioni, creò il suo possente, ma intemperante gigante d’argilla, inaugurando la cattiva coscienza dell’uomo intenzionato a sostituirsi alla creatività divina. Tuttavia, nella filologicamente e filosoficamente suggestiva interpretazione del teologo e scrittore Marc-Alain Ouaknin, come si può leggere nel catalogo della mostra parigina, una considerazione s’impone: quella secondo cui il primo Golem fu propriamente l’uomo, creato da Dio impastando una manciata informe di fango e animandolo, per così dire, bocca a bocca: «C’è in effetti una prossimità etimologica tra le parole ebraiche “adamah” (“terra”) e “adam” (“uomo”)».
In altre parole, la leggenda del Golem riassume tutto il meglio e tutto il peggio di quanto la riflessione storica e antropologica ha condensato nel concetto di essere umano, dalla dimensione empatica nei confronti del mondo alle ricorrenti minacce di autodistruzione. Ma non basta. Charles Mopsik (1956-2003) studioso della tradizione cabalistica, va oltre nella identificazione della dimensione golemica con la dimensione umana. Ribadendo e attualizzando la convinzione che non sia tanto il Golem a essere stato creato a immagine dell’uomo quanto l’uomo a rivelarsi, volente o nolente, come un Golem.
A proposito del saggio fondativo che Norbert Wiener dedicò alle complesse e contrastate relazioni tra cibernetica e religione (God & Golem, 1964), Mopsik rileva come il confronto con il Golem non faccia che rendere evidente ed esacerbare la “dimensione meccanica e determinata” dell’essere umano, il quale tanto più si rappresenta come liberamente pensante, quanto più si rivela limitato e condizionato.
Quasi a contemperarne la originarietà e la radicalità teologica, nella successiva letteratura talmudica il Golem ha assunto il significato di “creatura artificiale animale o umana”. Inaugurando quella concezione protesica della macchina come potenziamento specializzato delle limitate capacità umane, che ancora oggi ispira gli scenari della robotica, dal romanzo di Gustav Meyrink, pubblicato nel 1915, alle più recenti creazioni cinematografiche dei super uomini, altrimenti denominati x-men, nelle loro più ardite prefigurazioni farmaceutiche, genetiche e bioelettroniche.
Ma nel Talmud, Golem ha anche il significato di “oggetto in corso di realizzazione”: un significato che lo sottrae dal contesto, mediatico o tecnologico, del “già fatto”, per proiettarlo nell’orizzonte del “da fare”: vale a dire di ogni ineludibile impegno a mutare il proprio contesto vitale, che costituisce l’autentica, paradossalmente innaturale “natura”, epica e tragica insieme, dell’essere umano.
Un invito, quale si esprime anche nella conclusione della mostra parigina, a non chiudere il discorso sulle speranze o sulle paure suscitate dal progresso tecnologico, ma a intendere paure e speranze come uno stimolo permanente a traguardare passato e futuro in un presente operoso e responsabile.