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    Gli uomini che non si voltano

    Dal progresso scientifico e tecnologico scaturiscono due sentimenti contrapposti: quello di un mondo che cambia senza sosta, ma anche quello di un mondo che non ci sembra ancora cambiato abbastanza e che riaccende ogni volta il dibattito intorno al senso della modernità.

    di Gian Piero Jacobelli

    Conoscete la storia artistica di Hanna & Barbera, la prestigiosa Casa di produzione hollywoodiana di cartoni animati, nata nel 1957 e morta nel 2001 dopo la scomparsa di William Hanna, uno dei suoi fondatori con Joseph Barbera e George Sidney? Tra i tanti personaggi inventati e i serial cinematografici e televisivi realizzati, due almeno, proprio perché tra loro simmetricamente paradossali, li ricordano tutti: il ciclo degli Antenati e quello dei Pronipoti.

    I primi, gli Antenati, usufruivano praticamente di tutte le strumentazioni e le attrezzature di cui usufruisce l’attuale civiltà tecnologica, ma queste strumentazioni e queste attrezzature erano realizzate con materiali e dispositivi, per così dire, preistorici. Ciò che mancava significativamente era l’energia con cui farle funzionare, vale a dire la elettricità, ma i loro utenti se la cavavano lo stesso, a forza di braccia o di gambe. 

    I secondi, i Pronipoti, al contrario, non toccavano quasi nulla con le mani e con i piedi, in quanto tutta la loro vita si svolgeva in un ambiente avveniristico, di comunicazioni e trasporti che non richiedevano sforzo alcuno, se non l’esercizio della volontà. 

    Bene, ci capita spesso, anzi sempre più spesso, di percepire il mondo circostante come se fosse sospeso tra gli Antenati e i Pronipoti, nella misura in cui, quanto meno da un punto di vista tecnologico, ci troviamo davvero nel guado tra una modernità per così dire materiale e una modernità per così dire immateriale. Tra una vita basata sulle cose nella loro materialità e una vita basata sulle cose nella loro immaterialità: una sorta di pervasivo Internet delle Cose, per riprendere la fortunata definizione della capacità delle cose stesse di comunicare fra loro e con i loro utenti.

    Per spostarci in un altro universo di discorso, ma sulla stessa lunghezza d’onda, potremmo rifarci al titolo di un libro scritto tra il 1940 e il 1942 da Simon Weil, che ha suscitato grande attenzione sia per il suo contenuto meditativo, sia per il suo bellissimo titolo francese, La pesanteur e la grâce, che è stato tradotto in italiano nel 1951 dalle Edizioni di Comunità, in maniera a nostro avviso assai meno efficace, come L’ombra e la grazia, spostando l’asse semantico dal contrasto tra la materialità e la immaterialità a quello tra la oscurità e la chiarezza, ma così privilegiando, a pochi anni dalla fine della guerra, il riscatto tramite la fede dal riscatto tramite la volontà.

    A noi qui interessa piuttosto sottolineare il passaggio, implicito in quel titolo, tra un mondo fatto di cose e un mondo fatto di idee: un passaggio che ci fa sentire sempre più sostanzialmente estranei al mondo in cui viviamo senza riuscire, per altro, a entrare a pieno titolo e con piena consapevolezza in Un Autre Monde, come titolava il grande disegnatore Jean-Ignace-Isidore Gérard, detto Grandville, nella prima metà dell’Ottocento, quando non a caso la cosiddetta modernità stava attraversando la prima delle sue crisi ricorrenti. E sempre non a caso anche allora a guidare questo passaggio erano la Charge, la caricatura, che gioca sugli eccessi naturali, e la Fantaisie, l’immaginazione, che gioca sugli eccessi culturali.

    Anche se, pochi anni dopo, come ricordava Marshall A. Berman in un suo pregevole saggio dedicato appunto a L’esperienza della modernità, Karl Marx, sottolineando la crisi incipiente della borghesia, osservava con una sentenza rimasta proverbiale che «tutto ciò che è solido, si dissolve nell’aria». Ma non subito, ovviamente, e non senza che qualcosa – le strutture materiali esistenti – e qualcuno – gli “interessi costituiti”, quelli che nel 1957 Ernesto Rossi, tra i principali promotori del federalismo europeo, chiamava “i padroni del vapore” – si sforzi di resistere a quella che John Maynard Keynes, nel 1936, definiva “l’affermazione progressiva delle idee”.

    Abbiamo già osservato a proposito della cosiddetta Intelligenza Artificiale, di cui ci siamo occupati ripetutamente negli ultimi mesi, come il passaggio cruciale sia quello di comprendere che non si tratta di una serie di innovazioni tecnologiche, dalla robotica alla sensoristica, dalla automazione alla algoritmica, e via dicendo. ma di una rivoluzione sistemica in cui vengono coinvolte non solo le cose e le neppure solo le idee, ma le stesse modalità e le stesse ragioni della convivenza, sia sul posto di lavoro, sia in quel “posto proprio” che per ciascuno di noi coincide con la casa, la città, la nazione in cui vive.

    Si tratta, per concludere, di un passaggio così radicale, che, per quanto si possa acquisirne consapevolezza, si resta sempre divisi, come Ercole al bivio, tra il desiderio che il mondo cambi davvero, anche se non sappiamo ancora dove potrà andare a finire, e la tentazione di guardare indietro, nella paradossale nostalgia di un presente che è già cambiato, ma che molti vorrebbero non cambiasse.

    “Di guardare indietro”, abbiamo scritto. Ma forse, sulla scorta di una stupenda poesia del 1923 di Eugenio Montale tratta da Ossi di seppia, avremmo dovuto scrive “di guardare avanti”, perché è proprio indietro che casca l’asino, che la realtà potrebbe perdere i suoi connotati abituali e rivelarsi come una pia illusione: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco. / Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / alberi case colli per l’inganno consueto. / Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».

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