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    Flessibile non è precario.

    Le conseguenze psicologico-sociali del declino del lavoro come diritto

    La trasformazione sempre più impetuosa dell’esperienza sociale del lavoro rischia di spiazzare le certezze di un’intera generazione, indebolendo la credibilità stessa con cui il mondo costruito dagli adulti e, in particolare, le istituzioni formative si presentano ai giovani.

    La vulgata sulla «fine del lavoro» ha da tempo messo in luce gli effetti erosivi dovuti alla diminuzione quantitativa del tempo a esso dedicato: una perdita di «peso» e di impatto del lavoro sull’esperienza sociale moderna che, in una prima fase, è imputabile anzitutto all’innovazione tecnologica e organizzativa dei processi produttivi, a partire da quello che è stato storicamente il contributo delle nuove tecnologie time-and-labor saving nel ridurre il tempo dedicato al lavoro e, soprattutto, nel traslare quest’ultimo a una dimensione più trasversale e flessibile dell’esistenza, attraverso processi di progressiva detemporalizzazione e deterritorializzazione. Una tendenza, quella alla riduzione quantitativa della «fatica» lavorativa, che si traduce peraltro in un crescente disinvestimento esistenziale nel lavoro e nella sua tradizionale funzione di autorealizzazione individuale per i soggetti moderni. Il lavoro e la sua «etica» perdono così il primato, tradizionalmente detenuto in epoca industriale, nelle dinamiche di socializzazione: un cambiamento epocale, su cui diventa quasi lampante la comprensione di cosa abbia significato l’avvento della «società post-industriale».

    Ma la «fine del lavoro» annunciata in questi termini tende oggi a essere superata da una nuova ondata di trasformazioni sociali di grande portata, fino ad assumere in Italia connotazioni inedite e segnare alcune controtendenze. Primi fra tutte, l’indebolimento del lavoro come diritto garantito a tutti; ma anche il paradosso di una vita lavorativa in cui l’aumento della precarizzazione e quello dell’impegno temporale sembrano destinati a procedere sempre più spesso di pari passo, in una spirale perversa che finisce paradossalmente per affliggere soprattutto laureati e «lavoratori della conoscenza», cioè proprio i settori professionali a più elevata specializzazione.

    Di fatto, le risposte del mercato del lavoro alle provocazioni della modernità registrano caratteri di modesta evoluzione e, in qualche caso, di stallo. Ed è impossibile non chiamare in causa l’arretratezza nel processo di maturazione del nostro sistema politico, economico e anche universitario di fronte alla domanda di formazione che proviene dalle culture giovanili. A tutto questo si aggiunge una crisi persino più profonda: la progressiva precarizzazione del lavoro, che sembra quasi configurarsi «come una metafora regressiva della nostra società.

    In particolare, l’effervescenza del mondo delle professioni e il parallelo prender piede nel nostro paese di «culture del lavoro» sempre più labili devono tradursi in una presa di coscienza dell’Università a intervenire attivamente sia sull’aggiornamento curriculare e sull’indirizzo del mercato, sia sulla coltivazione di un diverso orientamento esistenziale al lavoro da parte dei giovani. Una sfida determinante, nel momento in cui l’occupabilità dei laureati – e cioè l’effettiva capacità di assorbimento da parte del mercato del «capitale umano» formato dall’Università – resta senza dubbio un dato tra i più critici del post-riforma, come prova soprattutto l’attento «barometro» di AlmaLaurea.

    Senza entrare nel merito dell’effettiva remuneratività economica del complesso sistema di misure politiche riferibili alla flessibilità (su cui, comunque, sarebbe finalmente ora di fornire valutazioni serie e risposte), occorre cominciare a interrogarsi sulla radicale sottovalutazione di un punto-chiave: la portata dell’incertezza lavorativa e del suo reale riflesso sulla struttura e sull’equilibrio sociale, a partire dal mutato sistema di valori che si offre alle nuove generazioni. Soprattutto, è impossibile tacere su una società, su istituzioni e su strutture formative che si presentano ai giovani dichiarando che per loro si prospetta solo flessibilità e precariato, senza contemporaneamente ricordare che la struttura delle opportunità di chi lancia questi messaggi conta invece su un lavoro fisso. Da una coerente assunzione di queste preoccupazioni – formulate in modo volutamente brusco e impaziente – discendono concreti interrogativi: nei confronti di una crisi che certo esige risposte urgenti e radicali, chi può credere che una soluzione meramente economica, come la scelta della flessibilità, sia ininfluente sui modelli di vita e di relazione?

    Ma il vero problema non attiene solo all’efficacia delle soluzioni tecniche, sempre che siano effettivamente capaci di ridimensionare la crisi, quanto alla difficoltà della nostra società di anticipare, pianificare, contenere quegli elementi di indebolimento dell’identità collegati al venire meno del lavoro come fattore di sviluppo e piattaforma esistenziale su cui s’innestano i ruoli sociali e persino quelli affettivi. A venir meno drammaticamente è oggi il diritto al lavoro come possibilità universale di partecipazione alla società, fulcro di progetti autonomi di vita, fondamentale «tagliando di identità e chance di mobilità sociale.

    Il cambiamento cui assistiamo è dunque generale, e attiene ad ampio raggio agli equilibri e alle stesse prospettive di sviluppo del sistema-paese: tendenze per le quali la «metafora del declino» ha finora probabilmente rappresentato la chiave di lettura privilegiata nel dibattito pubblico, capace di intercettare sentimenti e inquietudini diffuse senza però troppo aggiungere, in verità, a una più lucida ed equilibrata messa a fuoco dei problemi e delle soluzioni. Che succede ai diversi settori della società nei momenti di «crisi del lavoro»? Quali effetti sulla formazione delle future élite dirigenti? E, soprattutto, cosa può comportare una scossa di tali dimensioni sugli equilibri esistenziali di intere generazioni, in termini di socializzazione e rapporti con le istituzioni?

    Per quanto risulta visibile e dichiarato che i giovani – per contrasto con gli adulti e anche per tradizionale conflittualità con le cosiddette «entità stabili» – non individuano nella famiglia e nel lavoro il baricentro delle proprie certezze, si fa strada tuttavia una lettura delle generazioni e del loro rapporto con la flessibilità entro uno scenario interpretativo diverso rispetto al passato. Non dobbiamo ragionare a compartimenti-stagno, ma analizzare le crisi del mercato del lavoro entro la cornice più ampia di una concatenazione di cambiamenti. Purtroppo, la segnaletica della crisi è oggi diffusamente leggibile in molti settori della vita sociale, tanto da alterare la qualità della vita quotidiana in genere. La precarietà del lavoro viene quindi esasperata dalla precarietà dell’esistenza in genere, particolarmente quando mancano i necessari meccanismi di autoregolazione ed equilibrio sociale. Una crisi del lavoro che, unitamente alla drammatica impennata del costo della vita cui ha assistito l’ultimo triennio, nel nostro paese già dimostra di concorrere, almeno in alcuni settori sociali, a nuovi e insidiosi fenomeni di mobilità (sociale e culturale) discendente, verso il basso.

    Di fronte alle provocazioni di una modernità senza istruzioni per l’uso, non possiamo allora limitarci a strategie e manovre logistiche, senza aver messo in campo politiche di gestione della crisi capaci di intercettare in profondità problemi e contraddizioni che sono anzitutto di natura culturale e sociale. Soprattutto quando essi cambiano drasticamente persino il mondo degli affetti, la famiglia e il lavoro, che da sempre hanno costituito le palafitte dell’esistenza e della costruzione dell’identità.

    Una coraggiosa capacità di ripensamento può forse ripartire proprio dai settori occupazionali più giovani e dinamici, tra cui il campo delle professioni della comunicazione. Anche perchè, del resto, non è inverosimile che proprio nei settori più esposti all’innovazione la crisi del lavoro possa manifestarsi in modo più acuto, nonostante i dati dei diversi osservatori attivati dai diversi corsi di laurea e, ancora una volta, le indicazioni di AlmaLaurea continuino a offrire segnalazioni positive e piuttosto promettenti sul placement e il destino occupazionale dei laureati in Scienze della comunicazione.

    Di fatto, le classi dirigenti e gli intellettuali dovrebbero cominciare da una scelta di onestà: quella di ammettere che la flessibilità si è già dimostrata un valore come minimo controverso, scadendo troppo spesso nella pura precarizzazione professionale e in una scelta che è esaltata – torniamo a sottolinerarne l’irriducibile contraddizione – soprattutto dalle generazioni con il posto fisso. è una crisi del lavoro che esige il ripristino di nuove garanzie sociali e che, in particolare, riguarda per forza di cose l’università, il cui bacino privilegiato sono i giovani. Per un profondo aggiornamento del sistema di valori e delle stesse aspettative riposte nel passaggio al mondo del lavoro e ai ruoli della vita adulta, oltre che naturalmente nella preparazione curriculare delle nuove generazioni e classi dirigenti (l’enfasi anzitutto sul metodo, sul saper imparare lungo tutto l’arco della vita).

    Rispetto a quest’ultimo punto, occorre del resto rilevare quanto gli stessi ritmi vertiginosi dell’innovazione e l’intellettualizzazione crescente del lavoro – e, cioè, il fatto che quest’ultimo incorpori oggi un contenuto tecnologico e cognitivo sbalorditivo – finisca per esercitare un positivo stress sull’università, chiamata all’aggiornamento di un modello formativo che non dispensi staticamente nozioni, ma che sappia piuttosto coltivare nei giovani l’attitudine all’assorbimento critico dell’innovazione, all’adesione al progetto di una sorta di auto-formazione e formazione continua. Più diventano rapidi i meccanismi di sostituzione delle conoscenze, più si fa infatti necessaria la valorizzazione di un sistema formativo che esalti la conoscenza anzitutto come stile cognitivo, forma mentis, pensiero complesso, capacità di adattarsi a scenari sociali che cambiano a tutti i livelli e a velocità accelerata: un punto, questo, su cui il pensiero di uno studioso come Edgar Morin – la metafora della «testa ben fatta» – è particolarmente espressivo ed eloquente.

    Per tutte queste trasformazioni e per la complessità del loro intreccio, diventa oramai indispensabile una lettura consapevole della segnaletica della crisi del lavoro, in grado di restituire l’importanza del cambiamento e la presa di coscienza delle decisioni a un adeguato terreno culturale di riflessione e ripensamento pubblico, che ripristini condizioni sistematiche di ascolto dei giovani e delle loro difficoltà e che, di fatto, concorra a rinvigorire la fiducia e lo stesso sentimento del futuro nelle famiglie e nella società italiana. In questo clima culturale, l’università deve candidarsi ad assumere quel ruolo strategico che a essa naturalmente spetta, tanto più nella stagione attuale: anni che qualcuno ha già definito in salita, perché inequivocabilmente all’insegna di una congiuntura economica e culturale tra le più critiche degli ultimi decenni e, dunque, di una diversa e più incerta prospettiva del domani, destinata ad affliggere soprattutto i più giovani. Del resto, siamo anche all’inizio di un nuovo anno elettorale: è dunque il momento più favorevole per attrezzarci a chiedere alle forze politiche candidate a governare il paese chiarezza di impegni e lungimiranza per incalzare le criticità e le chance del tempo in cui viviamo e che siamo chiamati a interpretare.

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