Sempre più spesso, in molti campi di attività che prima richiedevano un diretto intervento dell’uomo, i cosiddetti droni la fanno da padroni e l’assonanza non è puramente casuale, ma esprime il senso di dominio implicito nella possibilità di guardare gli altri dall’alto e da lontano.
di Gian Piero Jacobelli
Un consiglio di lettura, che concerne in particolare la nostra rivista: a parte interessi specifici e/o occasionali, di tanto in tanto sarebbe utile esplorare in quanto tale la nostra sequenza on line per cogliere nella sua progressiva estensione (la home page contiene mediamente circa un paio di settimane di notizie) le ricorrenze tematiche e le priorità problematiche. Insomma, una sorta di agenda setting della civiltà tecnologica in diuturno incremento e in quelli che una volta si definivano effetti di secondo ordine: gli effetti di natura sociale ed economica, quando non direttamente politica, che derivano talvolta imprevedibilmente da ogni scarto, più o meno significativo, della innovazione tecnologica.
Tra queste ricorrenze e priorità, può venire sottolineata la portata ideologica, oltre che economica, dei droni, da cui sta nascendo una vera e propria filosofia dell’azione a distanza, includendo quindi quei dispositivi robotici che sostituiscono le relazioni faccia a faccia. In questa prospettiva, Grégoire Chamayou, docente di filosofia della Università di Lione, ha sintetizzato in un saggio tradotto in italiano qualche anno fa (Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere, Derive Approdi, 2014) la emergenza operativa dei droni in una convincente riflessione sulla deterritorializzazione della violenza, che purtroppo non significa meno violenza, ma una violenza meno consapevole e responsabile. Sempre che, nel caso della violenza, si possa parlare di responsabilità.
La utilizzazione di “aeromobili a pilotaggio remoto”, secondo la definizione tecnica dei droni, risale per lo meno agli anni Trenta. Si trattava allora di mezzi utilizzati a scopi addestrativi, in genere radio-bersagli, privi di capacità offensiva. I droni, però, dimostrarono presto la loro duttilità acquisendo altri compiti, assai più coinvolti negli scenari di guerra. Gli Stati Uniti, a seguito delle perdite screscenti nei cieli del Vietnam e del Laos, li destinarono ad attività di foto-ricognizione. Parallelamente le forze armate israeliane li utilizzarono per confondere le difese aeree avversarie durante la vittoriosa campagna dello Yom Kippur.
Per altro, ancora durante la guerra del Kosovo l’impiego di questi aeromobili a pilotaggio remoto non aveva carattere offensivo, limitandosi alla individuazione dei bersagli che, una volta illuminati dai raggi laser, venivano poi attaccati da altri vettori. Solo dopo l’11 settembre i droni, da strumenti di ricognizione, sempre più frequentemente si sono trasformati in armi, ormai diffuse in quasi tutti i Paesi del mondo, non esclusa l’Italia.
A questo proposito, in un esauriente saggio dedicato alle spese militari in Italia (Chiamata alle armi. I veri costi della spesa militare in Italia, Egea, 2018), Raul Caruso, docente della Università Cattolica del Sacro Cuore, afferma che «l’evoluzione più recente in termini di warfare è stata sicuramente il ricorso in maniera crescente agli unmaned aerial vehicles, meglio conosciuti come droni».
Dopo avere sottolineato come gli Stati Uniti siano all’avanguardia in questo settore, grazie a una “sostanziale azione di lobbying” condotta dalle grandi imprese dell’industria militare, e come la Cina, sia pure alla lontana, sia il secondo Paese al mondo per disponibilità di droni armati, Caruso segnala che anche l’Italia investe in maniera crescente nel settore, sia acquistando i droni dagli Stati Uniti, in particolare il Reaper, sia partecipando al programma del “drone europeo”, il MALE RPAS.
Di questa massiccia espansione mondiale, al tempo stesso industriale e militare, Caruso sottolinea alcune criticità, che configurano la pressante esigenza di una nuova etica della “responsabilità alla lontana”. In primo luogo, a conferma del disagio psicologico che i droni comportano, sono stati rilevati disagi e disturbi mentali nei piloti dei droni, non diversi da quelli che affliggono i piloti nelle aree di combattimento. In secondo luogo, il ricorso ai droni confonde i confini della guerra tradizionale, a favore di azioni militari clandestine di cui non si conoscono obiettivi e risultati. In terzo luogo, appare evidente che «armi come i droni generano una profonda asimmetria nel rischio per le parti coinvolte», per cui «i combattenti perderebbero l’autorizzazione morale a uccidere i nemici».
Se già suona strana la considerazione che vi sia una qualche “autorizzazione morale a uccidere i nemici”, tanto più strano appare che questi nemici possano venire uccisi senza neppure guardarli negli occhi. Da questo punto di vista, il drone non costituirebbe una novità, se si pensa che tutta la storia tecnologica della guerra si risolve in una storia della possibilità di colpire sempre più a distanza, prima con archi e frecce, poi con le armi da fuoco, dai fucili ai cannoni a lunga gittata, e infine con le bombe aviotrasportate. Culminando nella visione apocalittica dell’arma atomica e nella maschera emblematica del dottor Stranamore, il quale per altro finiva per cavalcare la sua bomba, in una sorta di compulsivo recupero della immediatezza aggressiva.
Tuttavia, l’associazione quasi sistematica dei droni con il problema della guerra può risultare deviante. Come si è detto all’inizio, sempre più spesso il drone prescinde da situazioni di esplicito conflitto, per diffondersi in ogni campo dell’azione umana: ricognitivo, progettuale, talvolta persino operativo. Anche nell’ultimo anno i piccoli droni a uso civile hanno contribuito a salvare persone in tutto il mondo, nonostante quanti li demonizzano per partito preso, considerandoli “a prescindere” un pericolo per le persone a terra.
Insomma, come spesso è avvenuto nella storia della umanità, spesso è la guerra a tirare la rincorsa della tecnologia, ma, se si tratta di una tecnologia efficace ed efficiente, dalle opere e i giorni della guerra non manca di rifluire nelle opere e i giorni della pace.
Senza però dimenticare che i problemi della relazione a distanza prescindono sia dalla guerra, sia dalla pace, nella misura in cui non si può avere relazione senza comunicazione. Vale a dire, senza accettare il rischio sollecitante e spesso creativo di una diretta conoscenza dell’altro.
(GJ)