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    Darsi il cinque

    La settima edizione del Premio Giovani Innovatori, promosso da MIT Technology Review Italia, alla presenza del prof. Romano Prodi e del ministro Carlo Calenda, ha offerto l’occasione per alcune importanti valutazioni in merito al passaggio da Industria 4.0 a Industria 5.0.

    di Gian Piero Jacobelli

    Che il tempo passi in fretta è un luogo comune sostanzialmente tautologico, dal momento che il tempo si manifesta proprio nel suo passare. Che il tempo passi sempre più in fretta è invece una considerazione contestualmente connessa al nostro tempo, che sembra accelerare giorno dopo giorno soprattutto in ragione dei cambiamenti tecnologici (quelli scientifici, invece, mantengono più il passo cadenzato della modernità che quello accelerato della contemporaneità).

    La constatazione è tornata di sorprendente attualità qualche giorno fa, in occasione della settima edizione del Premio Giovani Innovatori, promosso da MIT Technology Review Italia e ospitato nella magnifica Villa Guastavillani, sede di BBS, la Business School internazionale dell’Università di Bologna.

    Sette anni, dal 2011 al 2017, non sono poi tanti. Eppure in questi sette anni, quanto meno dall’osservatorio certamente elitario del nostro Premio, sembra che siano cambiate tante cose, non soltanto in superficie – come sarebbe comprensibile in un mondo, quale quello della ricerca, dall’agenda fittissima e incalzante –, ma in profondità, nelle ragioni stesse che orientano quel mondo e le sue implementazioni tecnologiche e produttive. A cominciare dal tema di fondo su cui si è articolato il Premio 2017: “Le nuove tecnologie per la crescita, da Industry 4.0 a 5.0”.

    C’è un che di paradossale, e quindi di sintomatico, in questa formulazione, dal momento che ancora si discute – e ne hanno appunto discusso il prof. Romano Prodi, per sottolineare la importanza di una formazione qualitativamente pertinente e quantitativamente adeguata, e il Ministro Carlo Calenda, per sottolineare le specifiche azioni di governo, ma anche l’esigenza di una visione culturale che resti aperta alle alternative – su come si possa tempestivamente approdare, e con quali conseguenze dal punto di vista organizzativo e occupazionale, al 4.0, ma già incalza una nuova metamorfosi, persino più radicale della precedente: quella connessa al 5.0.

    In cosa consiste questo ulteriore passaggio epocale? Passare, anche concettualmente, dalla Industria 4.0 alla Industria 5.0 non si risolve in un semplice incremento (da 4 a 5) dei fattori preesistenti, cioè quelli dell’automazione e della robotica: fattori che comportano una sostituzione progressiva della mano d’opera tradizionale con macchine in grado di fare meglio e di più.

    Il 5.0 segna, invece, una transizione anche più radicale dai processi basati su operazioni compiute da singoli operatori, uomini o macchine che siano, ai processi basati su una articolata e dinamica visione sistemica.

    Non si tratta più di conciliare presenze diversificate e specializzate, ma di concepire il prodotto come il risultato di una operazione “dialetticamente” significativa, i cui singoli fattori devono funzionare come le parole in una frase, che si collegano tra loro, grammaticalmente e sintatticamente, in un significato complessivo e sostanzialmente evolutivo rispetto alla situazione in cui vengono elaborate e pronunciate.

    In concreto, non si deve più concepire una catena di montaggio intorno a cui si muovono i vari operatori, in ragione di capacità e di compatibilità predeterminate: vale a dire di programmi idonei a finalizzarne i comportamenti, evitando che possano negativamente interferire tra loro.
    Si deve, al contrario, concepire un sistema in progress, basato sulla capacità delle sue singole componenti di migliorare la loro prestazione in forza delle loro interazioni incrementali e in ordine al conseguimento di obiettivi che risultano tanto orientati alla produzione, quanto alla promozione del sistema stesso.

    Da un punto di vista più generale, si potrebbe affermare che passare da 4.0 a 5.0 comporta un duplice passaggio, logisticamente rilevante: il passaggio da una “competenza esecutiva” (un “fare” finalizzato, ma ripetitivo) a una “pertinenza formativa” (un “fare” orientato verso innovative connessioni sistemiche e “cibernetiche” proiezioni contestuali).

    Tutto ciò richiede non soltanto inedite strumentazioni di comunicazione e di controllo, in grado di promuovere la crescita del sistema stesso nelle sue singole componenti e nel suo complesso, ma anche e forse soprattutto una inedita concezione di cosa significhi “fare sistema”: non più una convergenza sia pure sofisticata verso gli stessi obiettivi, ma una capacità di perseguire tali obiettivi trasformando i vincoli interni al sistema in opportunità esterne al sistema stesso.

    Si dice che un problema si risolve davvero soltanto rimuovendolo. Si può anche dire che un sistema si consolida soltanto trasformandolo. In una incessante metamorfosi sistemica consiste, appunto, la rivoluzione del 5.0. Rivoluzione non più di macchine, ma di sensori e di reti, cioè di processi in grado di inglobare il mondo circostante, perfezionandosi in termini non solo di efficienza, ma anche di efficacia. In questo ambito, la presenza umana, in termini sia quantitativi, sia qualitativi, non si troverebbe più in una logorante condizione concorrenziale, ma svolgerebbe un ruolo di orientamento e di mediazione tra processi interni (connessi alla produzione) ed esterni (connessi alla promozione e alla fruizione) del sistema stesso.

    Questa metamorfosi della “presenza umana”, che assume un valore emblematico nei processi d’innovazione sia nel campo della ricerca, sia in quello dell’impresa, è emersa in maniera assai incisiva e convincente nei profili dei quindici ricercatori e del giovane artigiano ai quali è stato assegnato il riconoscimento per l’anno in corso. Profili che si possono leggere nell’apposito spazio on line e che nel loro insieme lasciano intravedere la caratteristica qualificante del nuovo corso previsto dal 5.0: quella interdisciplinarità che, da un lato, allude a transizioni e transazioni tra diversi campi della conoscenza, dove l’algoritmo informatico gioca comunque un ruolo fondamentale; mentre, dall’altro lato, presuppone e promuove anche nel nostro Paese una specifica capacità di pensare due volte agli esiti delle proprie ricerche. In primo luogo, come conseguimenti conoscitivi e metodologici; in secondo luogo, come opportunità produttive e commerciali di mercato.

    Sette anni fa, nella prima edizione del Premio, che venne ospitata dalla Università di Padova, il problema su cui, nella estrema diversità degli approcci disciplinari, si concentrò la discussione, era quello che si potrebbe sinteticamente definire come la brevettabilità dei risultati più significativi delle ricerche presentate. Non un “supplemento d’anima”, come si diceva una volta, ma un “supplemento di corpo”, in grado di conferire concretezza e operatività ai risultati di laboratorio.

    Sette anni dopo, questo “supplemento di corpo” non si è più configurato come una possibile proiezione esterna di quanto internamente, nei loro contesti formativi, i giovani ricercatori aveva saputo conseguire, ma come una istanza che fa integralmente parte della concezione e della implementazione della ricerca stessa.

    Perciò “darsi un cinque” (5.0, ovviamente) assume un significato allusivo e programmatico, che proietta un saluto di successo nella possibilità stessa di avere successo in un mondo che richiede ineludibilmente di essere nel mondo.

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