Tanti, di quelli che guardano con paura al mondo, indicano tra i motivi dei loro timori lo sviluppo tecnologico, la scienza, la troppa scienza fuori controllo, dal nucleare all’ ingegneria genetica.
di Alessandro Ovi
Susan Hockfield, al suo insediamento come diciottesimo Presidente del MIT, prima donna e primo «non ingegnere» a ricoprire questo ruolo, ha evocato uno stato d’animo diametralmente opposto.
«Dobbiamo aiutare l’America a innamorarsi di nuovo delle meravigliose promesse della scienza, dell’ingegneria e della tecnologia», ha detto concludendo il suo discorso.
Nel fare questo auspicio non ha avuto una sola parola di biasimo per tutti coloro che cercano di capire il mondo seguendo strade diverse da quelle della scienza classica. Non ha chiesto più mezzi, nuove leggi o protezioni speciali per le istituzioni dell’insegnamento avanzato e della ricerca.
Susan ha solo ricordato i valori che formano fin dalla sua nascita il «carattere del MIT» e ha chiesto di continuare a sentirli propri con forza.
Aveva di fronte a sé, sul verde prato di Killian Court sulla riva del fiume che divide Cambridge da Boston, 2.300 membri della Comunità del MIT e le rappresentanze di 61 università da tutto il mondo.
«Il MIT che voi avete condiviso con me è un luogo di profonda integrità personale e allo stesso tempo di sorprendente pragmatismo. Questo connubio genera una caratteristica fondamentale della nostra istituzione, e cioè il modo in cui l’ingegneria non solo come disciplina accademica, ma come visione il mondo, permea qui ogni aspetto della vita e del pensiero: il rigore, l’implacabile curiosità, la creatività disciplinata, l’appetito per il vecchio, sano, duro lavorare, l’entusiastico senso del “possiamo farlo”, sono sempre stati i valori del MIT».
«Il MIT è una istituzione complessa, ma con una sola missione e un unico standard di eccellenza in tutti i suoi dipartimenti, dalla ricerca di base più profonda, spinta dalla curiosità, agli sviluppi delle applicazioni più pratiche, trainate dal mercato. L’uniformità dell’eccellenza rende possibili quelle collaborazioni quasi impensabili che sanno realmente spostare i confini della conoscenza e avviare le innovazioni più profonde. La nostra grande forza è la missione comune, perché tutti noi assieme ci sentiamo coinvolti in un vero servizio alla grande famiglia umana».
«Noi possiamo creare forme nuove di cooperazione tra tutte le nostre scuole e i nostri dipartimenti oltre che con tante istituzioni pubbliche e private, grazie al nostro istinto di apertura tra di noi e verso il mondo, nei confronti del quale vogliamo preservare il flusso vitale di studenti e di ricercatori stranieri che tanto contribuiscono alle nostre università e alla nostra società.
«Perché il MIT possa contribuire a costruire un mondo migliore dobbiamo appoggiarci alla forza della nostra comunità. Dobbiamo essere sicuri che il MIT diventi sempre più un luogo che ispira, accoglie e arricchisce chi vi lavora e vi vive. E dobbiamo sostenere e difendere la nostra ricca diversità, di idee e di culture, costruendo un sistema che incrementi anche la presenza di donne e di minoranze non sufficientemente rappresentate, desiderose di avanzare nei livelli di studio e nella carriera accademica».
Susan ha detto tutto questo con fermezza e allo stesso tempo con il calore che forse solo una donna può esprimere, specialmente quando invita l’America a innamorarsi di nuovo della Scienza e della Tecnologia.
Non una richiesta di aiuto, non un messaggio allarmato, ma soprattutto un senso profondo della propria forza e del proprio carattere.
Integrità, curiosità, apertura, comunione di diversità.
Qualità alle quali tutti noi, anche se con caratteristiche diverse, dovremmo saperci ispirare per guardare al mondo, sia pure con un poco di preoccupazione, ma non con paura, bensì con speranza.