di Alessandro Ovi
Per il rapporto tra tecnologia e società gli ultimi due mesi sono stati davvero straordinari. Sono arrivati ben due Cigni Neri (penso al Black Swan del libro di Nassim Nicholas Taleb: un evento totalmente imprevedibile con conseguenze drammatiche sulla società). La rivoluzione a catena in tanti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente; la catastrofe nucleare di Fukushima, seguita a terremoto e tsunami, sono esempi perfetti di questo fenomeno. Nessuno aveva previsto nemmeno lontanamente che potessero succedere e nessuno aveva neppure immaginato conseguenze tanto dirompenti.
Perché per questi due Cigni Neri è stata tirata in ballo la tecnologia? Perché per il primo si è pensato a un grande ruolo giocato da Internet per coagulare e diffondere protesta e ribellioni popolari contro regimi totalitari totalmente illiberali e non democratici. Per il secondo invece ci siamo resi conto che la tecnologia, quando si tratta di energia nucleare, non è sufficiente a proteggere da disastri gravissimi neppure nel paese forse più “tecnologico” del mondo, come il Giappone.
Di entrambi gli argomenti cominciamo a occuparci in questo fascicolo, nella speranza che agli interventi pubblicati, ai quali ne seguiranno altri sia sui prossimi fascicoli, sia in Rete, possa fare seguito un dibattito rigoroso, come rigorosa deve essere la rivista che fa capo al MIT.
Partiamo da Internet e democrazia (questo è il termine che si è usato a partire dall’avvio delle dimostrazioni in Tunisia). La prima tentazione è stata quella di glorificare il ruolo della tecnologia quale elemento determinante dei primi successi: la cacciata di Ben Alì e Mubarak. Ma, come si può leggere in un’analisi critica più approfondita nell’intervento di questo fascicolo, dal titolo Internet e la rivoluzione, il problema non è così lineare.
Il ruolo di Internet e più in generale quello di tutti gli strumenti digitali, dai telefoni cellulari alle TV satellitari, non va sempre nella direzione di aiutare chi protesta. Tanto dipende dal contesto culturale e storico in cui il fenomeno della protesta si sviluppa e soprattutto dal livello di sofisticazione del governo che viene attaccato. Sofisticazione che può arrivare, in alcuni casi reali osservati di recente, non solo alla capacità di bloccare l’accesso a contenuti indesiderati sulla Rete, ma anche alla identificazione e all’arresto di chi li ha prodotti, o addirittura alla possibilità di alterare i messaggi “eversivi”, in modo da renderli innocui, prima ancora che vengano realmente diffusi, siano email, tweets o blogs.
La conclusione dell’analisi pubblicata è che bisogna fare molta attenzione, prima di attribuire a Internet un ruolo di Messia della Democrazia, perché “la guerra per il controllo di Internet, nel suo uso ‘politico’, è solo all’inizio”.
Non dissimile, nel guardarsi da una fiducia cieca nella tecnologia, è il caso della centrale nucleare giapponese. Può apparire strano che una rivista come la nostra abbia un simile dubbio, ma strano non è se, come nel caso di Internet, un’analisi seria mostra che non è corretto estrapolare il puro fatto tecnologico dal suo contesto storico, sociale e culturale.
Il caso di Fukushima ha messo in evidenza che lo sfruttamento pacifico della energia nucleare ha ancora due problemi da risolvere: quello della paura per le catastrofi, per quanto improbabili siano, e quello dei costi a esse collegati. La paura per eventi molto improbabili, dicono i semplificatori a oltranza, è un fatto emotivo e la società dovrebbe superarla per godere di benefici di altro tipo, invece sono certi. Tanti casi però dimostrano come la paura sia uno stimolo che spesso ci aiuta a non metterci nei guai e che non la si può trascurare. Studi cui ho partecipato proprio al MIT dal lontano 1972, mostravano molto chiaramente che la paura (nei termini tecnici della teoria della decisione: l'”avversione al rischio”) ha aspetti diversi in funzione della gravità dell’evento che si teme, per quanto bassa sia la sua probabilità, e in funzione della possibilità di poterlo o non poterlo controllare, qualora si verifichi.
Il nucleare presenta, da questo punto di vista (erroneamente definito “solo emotivo”), entrambi i problemi e Fukushima lo ha chiaramente dimostrato. Una centrale nucleare non è come una a carbone o a gas che, una volta spenta, molto rapidamente non produce più calore. Una centrale nucleare, quando si blocca la reazione di fissione, calando completamente le barre di controllo, in realtà continua per lunghissimo tempo a produrre energia proveniente, sotto forma di radiazione, dai prodotti di fissione contenuti nel suo combustibile, che pure “non brucia” più, e per lunghissimo tempo deve continuare a essere raffreddata, presentando sempre un certo rischio di emissioni radioattive nell’aria, nel terreno, nell’acqua, se qualcosa non ha funzionato. è questo “lunghissimo tempo” di un rischio di esposizione a radiazione, che rende il nucleare diverso dalle altre fonti di energia e che di fatto fa paura.
Possiamo anche spiegare alla gente che sono assai di più i morti certi, ogni anno, da incidenti in miniere di carbone o da malattie polmonari per la contaminazione atmosferica da combustione di combustibili fossili. Questi sono “rischi distribuiti”, di ‘bassa intensità’, anche se con una certa probabilità di accadere (ci sono anche tanti che continuano a fumare e non hanno paura, sbagliando, ovviamente). Ma il rischio del nucleare è, in termini tecnici, “ad altissima intensità”, anche se a bassissima probabilità. Per di più, come ha dimostrato Fukushima, quando arriva il Cigno Nero, si ha la sensazione, a tratti e non solo a tratti, che la situazione sia fuori controllo, che gli operatori perdano la testa, che i capi raccontino bugie, che la tragedia diventi all’improvviso possibile. Che il reattore, anche se apparentemente spento, sia come un animale addormentato che può svegliarsi da un momento all’altro. Allora la paura non può non crescere e bisogna non “dileggiarla”, ma tenerne conto, se si vuole energia dal nucleo dell’atomo.
Tenerne conto vuole dire sostenere con nuove misure di sicurezza ulteriori costi rispetto a quelli già enormi dei doppi contenimenti, delle ridondanze dei sistemi di controllo, di raffreddamento, di stoccaggio degli elementi di combustibile esausti. è probabilmente questo che deriverà dagli studi in corso nel periodo di moratoria che tutto il modo si è dato per capire meglio. Ma la probabilità zero di incidente catastrofico sarà sempre più difficile da ottenere, perché bisognerà davvero premunirsi contro l’impossibile. E la paura non se ne andrà mai del tutto.
è chiaro che la riflessione così avviata va molto al di là della tecnologia. La recente decisione del governo italiano di cancellare il programma nucleare non riduce l’importanza dell’argomento a livello globale. Anche perché, se tra qualche mese tutto venisse rimesso in moto, nessuno lo considererebbe un Cigno Nero. Tuttavia, dando modo all’Enel di raccontarci, nelle pagine che seguono, il suo modo di vedere il futuro, speriamo di rimettere la tecnologia al centro della discussione, sia pure con tutto il rispetto per il contesto sociale, economico ed emotivo che un tema di tanta rilevanza merita.