Il sentimento di sfiducia sta crescendo tra molti critici delle mastodontiche aziende tecnologiche attuali, ma non c’è ancora accordo sul tipo di misure da adottare per ridurne le dimensioni.
di James Surowiecki
Per Apple, Amazon, Facebook e Alphabet, il covid-19 è stato una benedizione economica. Anche se la pandemia ha mandato l’economia globale in una profonda recessione e ha fatto crollare i profitti della maggior parte delle aziende, le Big Four della tecnologia non solo sono sopravvissute, ma hanno prosperato. Collettivamente, ora hanno un fatturato annuo di oltre un trilione di dollari e il valore delle loro azioni è aumentato vertiginosamente: insieme valgono 2,5 trilioni di dollari in più rispetto a 15 mesi fa.
Tuttavia, allo stesso tempo, queste aziende sono state oggetto di un attacco senza precedenti da parte di politici e autorità di regolamentazione negli Stati Uniti e in Europa. Mentre le udienze del Congresso con l’accusa a Facebook di censurare i conservatori o di non fare abbastanza per limitare la disinformazione e l’incitamento all’odio hanno catturato l’attenzione dell’opinione pubblica, le aziende stanno affrontando minacce molto più sostanziali, sotto forma di nuove azioni legali, proposte di legge , e regolamenti.
Lo scorso autunno, la Federal Trade Commission e 48 procuratori generali dello stato hanno intentato una causa contro Facebook, accusandola di mantenere illegalmente un monopolio sullo spazio dei social network “attraverso una condotta anticoncorrenziale durata anni”. Poco dopo, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e 11 procuratori generali dello stato hanno promosso una causa contro Google, per un presunto monopolio illegale sui mercati di ricerca e pubblicità. Apple è attualmente impegnata in un processo civile con lo sviluppatore di giochi Epic Games, che sta sfidando il controllo di Apple sul suo App Store per motivi legati all’antitrust.
La scorsa estate, la commissione giudiziaria della Camera degli Stati Uniti ha concluso un’indagine di 19 mesi sulla presunta attività anticoncorrenziale dei titani della tecnologia. Il rapporto di 450 pagine risultante descriveva le aziende come “i tipi di monopoli che abbiamo visto per l’ultima volta nell’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie” e raccomandava al governo di agire contro di loro.
È facile, ovviamente, liquidare tutto ciò che esce da Washington o Bruxelles come un pregiudizio politico, ma in questo caso sarebbe un errore. Il presidente Joe Biden ha nominato alcuni dei critici più acuti e più accesi della Big Tech, tra cui il professore della Columbia University Tim Wu, autore del libro The Curse of Bigness, e Lina Khan, che ha collaborato come consigliere speciale al comitato giudiziario durante le sue indagini, a importanti ruoli nella sua amministrazione.
L’Europa sta mettendo in atto regolamenti più severi per cercare di limitare il potere di Big Tech. E l’azione antitrust, almeno per quanto riguarda l’industria tecnologica, è una merce ormai rara: un accordo bipartisan al Congresso.
Ciò che è probabilmente più importante è che siamo nel mezzo di un cambiamento radicale nella discussione intellettuale, il che ha reso molto più facile perseguire la Big Tech. Per molti versi, sembra di tornare alla visione antitrust che ha determinato la politica statunitense nei confronti delle grandi aziende per gran parte del XX secolo, una visione molto più scettica sulle virtù delle dimensioni e molto più disposta ad essere aggressiva nel limitare il potere monopolistico.
Le principali leggi antitrust americane sono state scritte all’inizio del XX secolo. La Sherman Antitrust Act del 1890 e la Clayton Act del 1914, pur nella loro approssimazione, prendevano di mira i monopolisti che si impegnavano in quella che chiamavano “limitazione del commercio”. Ed erano guidate in gran parte dal desiderio di frenare i giganteschi trust che, attraverso una serie di fusioni e acquisizioni, erano arrivati a dominare l’economia industriale americana.
L’esempio per antonomasia era la Standard Oil, che aveva costruito un impero che gli dava il controllo completo sul business petrolifero negli Stati Uniti. Ma la legge antitrust non è stata utilizzata solo per bloccare le fusioni. È stata anche utilizzata per fermare una serie di pratiche ritenute anticoncorrenziali, comprese alcune che oggi sembrano di routine, come sconti aggressivi o legare l’acquisto di un bene all’acquisto di un altro.
Tutto questo è cambiato con l’amministrazione Reagan negli anni 1980. Invece di preoccuparsi dell’impatto delle grandi aziende su concorrenti o fornitori, le autorità di regolamentazione e i tribunali hanno iniziato a concentrarsi quasi interamente su quello che veniva chiamato “benessere dei consumatori”.
Se si poteva dimostrare che una fusione, o le pratiche aziendali, portavano a prezzi più alti, allora aveva senso intervenire. In caso contrario, i regolatori antitrust in genere hanno adottato un approccio di non intervento. Ecco perché le acquisizioni da parte di Facebook di Instagram e WhatsApp, l’acquisizione di Zappos da parte di Amazon e le acquisizioni da parte di Google di DoubleClick, YouTube, Waze e ITA hanno superato il processo di approvazione normativa senza intoppi.
Non è più così, però. Negli ultimi quattro o cinque anni, esperti e politici hanno iniziato a promuovere una nuova idea di quale dovrebbe essere la politica antitrust, sostenendo che ci si deve allontanare dalla ristretta attenzione al benessere dei consumatori, che si è focalizzata soprattutto sui prezzi, e muoversi verso la considerazione di una gamma molto più ampia di possibili danni derivanti dall’esercizio del potere di mercato da parte delle aziende: danni ai fornitori, ai lavoratori, ai concorrenti, alla scelta dei clienti e persino al sistema politico nel suo insieme.
Lo hanno fatto, non sorprendentemente, con i Big Four in mente. Ma come sarebbe esattamente il controllo del potere di Big Tech? Risposta breve: dipende molto dall’azienda che si prende in considerazione.
Gli obiettivi
Mentre i sostenitori dell’antitrust spesso raggruppano retoricamente Apple, Amazon, Google e Facebook, creando un’immagine memorabile di quattro giganti “guardiani” che controllano collettivamente l’accesso all’economia digitale, in realtà le quattro aziende hanno attività molto diverse che sollevano differenti questioni antitrust e si prestano a più soluzioni antitrust.
Si prenda, per cominciare, Apple. È l’azienda con il valore più alto al mondo, al momento in cui scriviamo vale più di 2 trilioni di dollari. È anche l’azienda più redditizia al mondo. Eppure, quando si tratta di discussioni su antitrust e Big Tech, Apple rimane sempre nell’ombra. Nel libro di Wu, Apple fa a malapena la sua apparizione, e nel nuovo libro della senatrice Amy Klobuchar, Antitrust, che è un sonoro appello per l’applicazione di nuove politiche anti-monopolistiche, l’attenzione su Apple non appare centrale nelle sue tesi.
Ciò potrebbe essere in gran parte dovuto al fatto che Apple è diventata un colosso per lo più da sola, anche se ha effettuato molte acquisizioni. La sua recente crescita è dovuta principalmente al semplice fatto che ha introdotto tre dei prodotti tecnologici di maggior successo e redditizi della storia e che ha continuato a convincere i clienti a continuare l’aggiornamento per la prossima generazione di prodotti.
A dire il vero, Apple ha problemi di antitrust, incentrati sulla sua richiesta che tutti gli sviluppatori che realizzano app per iPhone e iPad vendano i loro prodotti attraverso l’App Store, con Apple che riscuote una commissione del 30 per cento. Quindi è possibile che Apple finisca per dover consentire agli sviluppatori di vendere direttamente ai consumatori o addirittura consentire app store indipendenti. Anche così, potrebbe comunque riscuotere un canone di licenza da qualsiasi app che volesse essere su iPhone. E la maggior parte degli utenti, con ogni probabilità, continuerebbe a utilizzare l’App Store a prescindere, anche solo per abitudine e comodità.
Quindi, nel grande schema delle cose, Apple non sembrerebbe avere molto di cui preoccuparsi a causa delle crescenti pressioni dell’antitrust.
La situazione di Amazon è più complicata. Anch’essa ha avuto uno sviluppo lineare. Pur avendo fatto la sua parte di acquisizioni, è cresciuta principalmente da sola, guidata dal suo appetito incessante di vendere di più, dai suoi enormi investimenti in infrastrutture e dalla sua volontà di spendere grandi quantità di denaro per conquistare e mantenere i clienti. Il suo più grande problema antitrust deriva, paradossalmente, da qualcosa che ha creato lei stessa: Amazon Marketplace.
L’iniziativa è stata il risultato di una decisione che, all’epoca, sembrava folle a molti: consentire ai venditori esterni di competere con i prodotti Amazon e vendere sulla sua piattaforma, con Amazon che si prendeva una parte dei proventi. Si è rivelata una mossa geniale: Marketplace ora rappresenta una fetta enorme delle vendite di Amazon e una fetta ancora più grande dei suoi profitti al dettaglio. Ma Marketplace è diventato anche il luogo in cui l’esercizio del potere di Amazon è più visibile e più ovviamente problematico.
Come spiega Brad Stone nel suo nuovo libro Amazon Unbound, molti venditori di Marketplace accusano l’azienda di falsificare i risultati di ricerca per premiare coloro che utilizzano i suoi servizi di evasione ordini anziché evadere gli ordini da soli, di premiare i venditori che fanno pubblicità sul sito e di favorire i prodotti a marchio Amazon nelle classifiche. Ma la critica più severa è quella di utilizzare i dati di Marketplace per identificare prodotti particolarmente di successo e quindi imitarli per indebolire i venditori presenti sulla piattaforma.
Se Amazon sia o no un monopolista al dettaglio è una questione aperta: le sue vendite totali rimangono ben al di sotto di quelle di Walmart e anche nel commercio online la sua quota di mercato è inferiore al 50 per cento. E’ indiscutibile comunque che controlli Marketplace e i venditori che lo usano non hanno molti altri posti dove andare. Ecco perché politici come la senatrice Elizabeth Warren hanno sostenuto che Amazon dovrebbe essere obbligato a scorporare Marketplace mentre altri hanno suggerito l’imposizione di regolamenti severi su come gestisce il sito.
Anche così, non sorprende che quando il governo stava decidendo contro quali aziende intentare azioni legali antitrust, si sia rivolto immediatamente a Google e Facebook. Queste aziende sono le più facili da inserire in una definizione tradizionale di monopolio: oltre il 90 per cento di tutte le ricerche su Internet viene eseguito tramite Google e le due aziende controllano circa l’80 per cento del mercato pubblicitario digitale.
Le acquisizioni da parte di Google di DoubleClick e ITA hanno giocato un ruolo chiave nel rinforzare questa idea. L’azienda affronta una causa in Europa per aver “armeggiato” con i risultati di ricerca per mettere il proprio motore di confronto degli acquisti più in alto nelle classifiche e i siti per i servizi rivali più in basso.
Forse la cosa più importante è che Google tiene effettivamente nelle sue mani il destino economico dei siti web in tutto il mondo: una modifica al suo motore di ricerca o agli algoritmi di YouTube può costare migliaia di clienti o spettatori. Niente di tutto questo avrebbe avuto molta importanza nei giorni in cui i regolatori si preoccupavano principalmente dell’impatto di un monopolio sui prezzi al consumo, dal momento che quasi tutto ciò che fa Google è gratuito per i consumatori. Ma con il nuovo modello antitrust, la grandezza dell’azienda la rende un buon obiettivo.
Non quanto Facebook, però. Se dovessi scommettere, infatti, su quale azienda ha più probabilità di subire conseguenze reali dalla rivoluzione della politica antitrust, punterei su Facebook, con il suo 61 per cento di tutti i contatti sui social media negli Stati Uniti. L’azienda è stata notoriamente spietata nell’eliminare i concorrenti, duplicando le loro funzionalità, come ha fatto con Snapchat e Twitter, o semplicemente acquisendoli.
Le sue acquisizioni di WhatsApp e Instagram sembrano proprio il tipo di acquisizioni anticoncorrenziali che i regolamenti sono stati progettati per fermare. E la sua mancanza di trasparenza sul modo in cui utilizza i dati dei clienti è di dominio pubblico.
Ma come sarebbe davvero una rottura?
I Big Four sono senza dubbio nel mirino del governo. Eppure le loro azioni sono ai valori massimi, il che suggerisce che gli investitori, almeno, scommettono che il clamore dell’antitrust non porterà a grandi misure. Perché?
Uno dei motivi è che nel perseguire Big Tech, i garanti della legislazione antitrust hanno preso di mira alcune delle aziende più popolari in America. I sondaggi rilevano regolarmente che Amazon è l’azienda più affidabile negli Stati Uniti, con Google e Apple non molto indietro nelle classifiche dei “più ammirati”. Facebook è l’eccezione; ma anche se alla gente non piace, ne utilizza i servizi.
I sostenitori dell’antitrust vogliono prendere in considerazione altri tipi di danni, ma non stanno dicendo che gli interessi dei consumatori dovrebbero essere ignorati. E i vantaggi che le persone ottengono da queste aziende sono facili da mostrare, mentre i danni che stanno infliggendo agli utenti possono essere difficili, se non impossibili, da definire, spesso basandosi su idee un po’ astratte di scelta ristretta del consumatore e sui costi di una futura innovazione persa.
Questi costi sono probabilmente reali, ma non è ovvio che siano sufficienti per creare un supporto popolare a interventi come lo scioglimento delle aziende. E mentre in teoria stiamo parlando di legge, in pratica tutte le decisioni su quali cause portare avanti e contro chi sono modellate dalla politica, il che significa che a loro volta sono influenzate dall’opinione popolare. È improbabile che un presidente voglia essere visto come la persona che ha “spezzettato” Google, in particolare se ciò significa peggiori motori di ricerca e mappe.
Anche se la retorica pubblica suggerisce una campagna per ridurre le dimensioni della Big Tech, probabilmente si finirà con una serie di provvedimenti specifici per ogni singola azienda. Amazon potrebbe dover rispettare normative più severe su Marketplace, inclusi limiti al suo potere di manipolare i suoi risultati di ricerca o forse anche la sua capacità di competere con i venditori di Marketplace. Il monopolio di Apple sull’App Store potrebbe finire. Google potrebbe dover affrontare normative più severe su ciò che può fare con i dati e su come funziona il ranking del suo motore di ricerca.
Questi non sarebbero cambiamenti banali, motivo per cui ci si può aspettare che le aziende li combattano. Eppure, nella maggior parte dei casi, è difficile pensare che modifichino radicalmente la situazione. In effetti, negli ultimi anni queste aziende hanno già dovuto modificare varie pratiche discutibili in risposta a casi giudiziari o richieste delle autorità di regolamentazione.
Per Facebook, il meno popolare dei Big Four, la situazione potrebbe essere diversa, più simile a quanto successo a Standard Oil e AT&T. Instagram e WhatsApp potrebbero diventare aziende indipendenti. Sarebbe logisticamente difficile, dal momento che Facebook ha lavorato assiduamente per integrare i tre servizi, ma non è impossibile.
Inoltre, appare un rimedio logico e facile da capire che potrebbe iniettare una certa concorrenza nei social media. Anche così, non è chiaro se ciò intaccherebbe fondamentalmente la presa di Facebook sugli utenti, dato il tesoro di dati che controlla e il potere degli effetti di rete.
In realtà, se il nuovo movimento antitrust vuole davvero cambiare l’economia digitale, serve un cambio di passo. Il più grande vantaggio competitivo di queste aziende non sono le cose legalmente dubbie che stanno facendo: è il loro accesso perfettamente legale a enormi quantità di dati utente dettagliati e granulari.
Questi dati li aiutano a comprendere i loro utenti meglio di chiunque altro e ad apportare miglioramenti continui ai loro prodotti e servizi, il che a sua volta gli permette di mantenere gli utenti attuali e di aggiungerne di nuovi, garantendogli accesso a più dati e così via. È la chiave della loro crescita.
Sfidare veramente il potere dei Big Four significherebbe ripensare al modo in cui i dati vengono raccolti e utilizzati dalle aziende e chi può accedervi. Potrebbe significare richiedere che i dati siano condivisi, che gli algoritmi siano trasparenti e che i consumatori abbiano un controllo molto maggiore su ciò che condividono e su ciò che non condividono.
Perché ciò accada, i nuovi garanti della legislazione antitrust dovranno sostenere che anche se ci piace ciò che i nostri padroni digitali stanno facendo con i nostri dati, è comunque sbagliato che un piccolo numero di aziende ne controlli così tanto. In un certo senso, devono dimostrare che, come in passato, a un certo punto la grandezza in sé e per sé è una maledizione. Le Big Tech hanno prosperato semplicemente perché le aziende hanno creato così tanto valore per i consumatori. Scopriremo se è abbastanza per tenerli al sicuro in questo nuovo mondo.
James Surowiecki è l’autore di The Wisdom of Crowd. Ha collaborato con la pagina finanziaria del “New Yorker”.
Immagine di: Andrea Daquino
(rp)