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    Cosa rende un pianeta “abitabile”?

    Nuovi strumenti e software di modellazione forniscono indizi sulla risposta a questa domanda.

    di Neel V. Patel

    Dell vapore acqueo è stato recentemente individuato nell’atmosfera dell’esopianeta K2-18b, a 110 anni luce da noi. Fondamentalmente, il pianeta si trova nella “zona abitabile” della propria stella (la regione di spazio attorno ad una stella sufficientemente temperata da permettere l’esistenza di acqua di superficie in forma liquida, chiamata anche “zona Goldilocks”). 

    L’utilizzo del termine “abitabile” è controverso. Gli umani non possano, infatti, vivere su K2-18b, ma gli esperti stanno dibattendo la possibilità che vi si possa trovare qualche forma di vita microbica estrema. Il K2-18b si può anche trovare nella “zona abitabile”, ma nessuno sa se sia effettivamente “abitabile” o meno.

    Questo disaccordo nasce in parte dall’assenza di consenso sul tipo di pianeta K2-18b, ma anche dal fatto che esistono diverse definizioni di abitabilità. Alcuni scienziati ritengono che una superficie rocciosa sia essenziale. Altri credono che la vita microbica posse trovare modo di esistere nell’aria, come i batteri che cavalcano la polvere nel vento. Alcuni hanno cercato prove dell’esistenza di una superficie spessa e calda, mentre altri non erano sicuri che fosse necessaria. “Gran parte della discussione è guidata da ciò che già conosciamo e dalle esistenti tecnologie di terraformazione”, spiega Rory Barnes, astronomo e astrobiologo presso il Virtual Planet Laboratory dell’Università di Washington. 

    Fino a pochi anni fa non sapevamo nemmeno se l’esistenza di pianeti oltre il sistema solare fosse comune. È solo con il varo del Kepler Space Telescope della NASA nel 2009 che gli astronomi hanno avuto a disposizione un metodo più preciso per identificare pianeti in transito di fronte alle loro stelle ospiti. I dati forniti da tali osservazioni erano molto limitati. Ad esempio, nel 2007 gli scienziati hanno scoperto il pianeta Gliese 581c, il primo esopianeta sia roccioso che posizionato nella zona abitabile della sua stella. 

    La presenza di acqua è essenziale alla vita come noi la conosciamo, una discriminante utile per selezionare nuovi mondi che possano attirare la nostra attenzione. Altre esigenze della vita, sono una fonte di carbonio, di energia e sostanze nutritive essenziali, spiega Stephanie Olson, ricercatrice planetaria dell’Università di Chicago. Qualunque pianeta privo di questi elementi non è più abitabile di Plutone, per non parlare del fatto che un pianeta può essere abitabile anche posizionato al di fuori della zona abitabile. La luna Europa di Giove, e le lune di Saturno, Titano  ed Encelado, sono solo alcuni esempi di possibili “mondi oceanici” che suscitano l’interesse degli astrobiologi nonostante si trovino ben oltre la zona abitabile del sole. 

    Parte del problema nasce dall’aver isolato queste ricerche da altre scienze. “Dico sempre agli astronomi che per definire l’abitabilità, è necessario rivolgersi alla biologia”, dichaira Abel Méndez, astrologo planetario e direttore del Planetary Habitability Laboratory dell’Università di Puerto Rico ad Arecibo. Secondo Barnes, “essere troppo Terra-centrici è un rischio”. La vita potrebbe esistere su Titano o Europa, o forse anche su Venere, in qualche forma che non siamo pronti a riconoscere. 

    Per migliorare il nostro approccio serve un maggiore scambio di istruzione e dati tra i diversi campi della scienza. A questo proposito, il Virtual Planet Lab, è stato fondato nel 2001 per studiare come un pianeta abitabile si forma ed evolve e come possiamo effettivamente osservare il processo su di un vero esopianeta. Al laboratorio insegnano climatologi, ricercatori atmosferici, informatici, biologi, geofisici e astronomi, a rappresentare l’approccio multidisciplinare che le scienze planetarie dovrebbero perseguire. Il laboratorio ha recentemente rilasciato VPLanet, un open software capace di simulare l’evoluzione di un pianeta nel corso di miliardi di anni, principalmente per valutare se tale pianeta sia o sia mai stato potenzialmente abitabile e capace di supportare acqua liquida in superficie. 

    Uno strumento come VPLanet ha lo scopo di aiutare a individuare quali pianeti delle zone abitabili (e altri buoni candidati) valga la pena studiare più a fondo, ma questi tentativi di caratterizzare la storia di un pianeta potrebbero anche portarci a selezionare esopianeti che altrimenti ignoreremmo. Tendiamo a considerare la storia della Terra come una selvaggia corsa evolutiva, ma secondo Barnes potrebbe essere stata docile rispetto all’esperienza di altri esopianeti che stiamo ora identificando. Modelli diversi potrebbero permetterci di riconoscere dinamiche evolutive alternative. “Abbiamo bisogno di modelli biologici migliori”, spiega Olson. “I biologi hanno i propri modelli, i climatologi pure, per non parlare degli astronomi. Dobbiamo trovare il modo di connettere questi dati. ” 

    Oltre ai modelli servono migliori strumenti per osservare questi mondi. Abbiamo bisogno di sapere se l’atmosfera del pianeta sotto osservazione sia composta degli elementi importanti per la vita, se siano presenti biosignature come il metano, i prodotte di processi biologici. Strumenti come i telescopi spaziali Hubble e Kepler, della NASA, hanno avuto un impatto enorme, ma il loro potenziale è stato sfruttato al limite. Il James Webb Space Telescope e il telescopio spaziale ARIEL della ESA, dovrebbero essere in grado di caratterizzare le atmosfere di distanti esopianeti. 

    Méndez crede che dovremmo essere pronti a identificare anche segnali tecnologici, ma il fatto rimane che “l’unico vero modo per capire se un posto sia abitabile o meno non è tanto misurare tutte queste diverse variabili quanto trovare la vita”, spiega Le discussioni, quindi, sono per ora destinate a continuare.

    (lo)

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