Facebook interviene per prevenire i suicidi. Che dire della radicalizzazione? Siamo onesti: Google e le altre società facilitano troppo il reperimento di video di persone che vengono assassinate.
di David Talbot
Quando Hilary Clinton ha richiesto l’aiuto delle società tecnologiche nella lotta all’ISIS, giocatori principali come Facebook hanno rapidamente risposto che i contenuti riguardanti il terrore sono vietati all’interno dei loro siti. È vero, ma potrebbero comunque fare di più.
L’ISIS deve parte del suo successo all’abile leva che ha saputo applicare sugli strumenti di Internet per diffondere messaggi medievali, disseminare video di atrocità e reclutare nuovi aderenti. Victoria Grand, direttore normativo di Google, ha ammesso la scorsa estate che “l’ISIS sta attraversando un momento virale sui social media” ed aggiunto che Google sta cercando di scoprire come fare a “evitare di diventare un canale di distribuzione per una propaganda tanto orrenda quanto efficace”.
In qualche modo, però, Google rimane uno dei vettori dell’ISIS. Certo, la società svolge un discreto lavoro nell’eradicare contenuti terroristici (e video musicali) da YouTube. È però sufficiente rivolgersi ad un’altra proprietà di Google: il suo motore di ricerca. Basta infatti digitare “video ISIS” o qualcosa di simile; e in un istante gli algoritmi di Google vi indirizzeranno verso un qualche tetro sito web che ospita al suo interno i materiali più orribili che si possano immaginare. I regolatori dovrebbero richiedere informazioni quali l’identità di chi indirizza il traffico web verso siti contenenti propaganda terroristica e immagini atroci. Seguirebbe certamente la domanda su cosa può essere fatto in più per proteggere giovani e non dall’essere esposti a contenuti simili.
Passiamo ora a Facebook. Come nel caso di Google, Facebook si impegna duramente per rimuovere contenuti terroristici dalle proprie notizie. Dispone di una varietà di strumenti sui quali poter fare affidamento. La società ha una divisione per i dati scientifici che passa al setaccio i commenti, i link, le visualizzazioni online, le amicizie strette da ciascun utente e molto altro. Si potrebbe chiedere di applicare le stesse risorse che si occupano di creare un micro profilo degli utenti, ricercare indizi nei testi, identificare schemi e determinare le notizie più idonee a ciascuno di essi per identificare quali giovani utenti sono a maggior rischio di essere coinvolti in movimenti radicali. Da qui si potrebbe in seguito testare ed implementare metodi di intervento per raggiungere i giovani più isolati e vulnerabili. Potremmo addirittura immaginare di avviare confronti diretti con ciascuno di questi soggetti. (un concetto esplorato recentemente in un piccolo studio condotto dall’Institute for Strategic Dialogue con l’aiuto di Facebook).
Inconcepibile? Non se consideriamo le affermazioni di Mark Zuckerberg in persona, il quale ha espressamente descritto come Facebook potrebbe, e dovrebbe, intervenire su una serie di fronti differenti: la riduzione del bullismo, la prevenzione dei suicidi, il sostegno per la donazione di organi e la promozione dell’affluenza alle urne. In un particolare e significativo esempio su quanto questi interventi possano ripagare i dividendi nel mondo reale, gli incoraggiamenti di Facebook ad andare a votare sono valsi il voto di 340.000 persone.
Rispondere alla chiamata della Clinton e di altri regolatori non sarà facile. Considerati però i rimarchevoli progressi fatti dall’industria tecnologica su così tanti fronti, è il caso di chiedere: quali altri risultati possono ottenere gli strumenti tanto affinati per la scienza dei dati? Come possiamo proteggere al meglio i giovani, ridurre la violenza, limitare la portata della propaganda terrorista, e promuovere invece la pace?
(MO)