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    Come porre fine alla brutalità della polizia

    Non è la prima volta che i video di testimoni occasionali hanno provocato la creazione di un movimento di protesta, ma ora si apre la possibilità di un cambiamento epocale nelle forze dell’ordine.

    di Karen Hao

    Di tutti i video dell’omicidio di George Floyd, quello registrato dalla diciassettenne Darnella Frazier sul suo telefono è quello che ha colpito di più. Mostra l’agente Derek Chauvin con il ginocchio sul collo di Floyd, che inutilmente lo supplica: “Per favore, per favore, per favore, non riesco a respirare”. Nella denuncia penale si afferma che Chauvin ha bloccato il collo di Floyd per 8 minuti e 46 secondi, fino a quando Floyd è rimasto privo di conoscenza. Nel filmato, Chauvin guarda verso chi lo riprende mentre si trova sopra Frazier, ormai immobile: un’immagine agghiacciante e devastante.

    Le riprese hanno indotto milioni di persone a scendere in strade in oltre 450 manifestazioni negli Stati Uniti e altre centinaia in decine di paesi in tutto il mondo. Non si tratta solo di questo omicidio. Da quando sono scoppiate le proteste, i video che documentano numerosi altri episodi di brutalità della polizia sono stati caricati sui social media.

    Un ufficiale a cavallo calpesta una donna. Le auto della polizia accelerano in mezzo alla folla. Gli ufficiali spingono a terra un uomo anziano, che si ferisce alla testa nella caduta mentre gli agenti si allontanano indifferenti alla scia di sangue che cola dalla testa dell’uomo. Un montaggio di 14 video, intitolato This Is a Police State, è stato visto quasi 50 milioni di volte.

    Ancora una volta, i filmati ripresi su uno smartphone stanno catalizzando l’iniziativa politica per porre fine alla brutalità della polizia una volta per tutte. Ma la sfida vera è trasformare questo slancio in un cambiamento duraturo. Sei anni fa, il mondo ha visto Eric Garner pronunciare le stesse parole – “Non riesco a respirare” – mentre l’agente del NYPD Daniel Pantaleo lo ha strangolato con una presa al collo. 

    Un manifestante in Jamaica Plain, a Boston. Philip Keith

    Quattro anni fa, un video di Philando Castile, a 15 minuti di auto da Minneapolis, che muore dissanguato dopo essere stato colpito cinque volte dall’agente Jeronimo Yanez a uno stop. Entrambi gli incidenti hanno provocato manifestazioni di massa, eppure la situazione è ancora la stessa.

    Quindi, come trasformare la verità di questi filmati, in un cambiamento reale della polizia? La risposta prevede tre fasi: in primo luogo, è necessario testimoniare queste ingiustizie; secondo, si deve legiferare a livello locale, statale e federale per smantellare i sistemi che proteggono la polizia quando commettono tali atti; infine, sono indispensabili programmi di copwatching basati sulla comunità per rendere responsabili i dipartimenti di polizia locali.

    La buona notizia è che qualcosa si è mosso. “Nel passato si è avuta spesso questa impressione, ma non è stato così”, afferma Allissa V. Richardson, professore di giornalismo presso l’Università della California del Sud che ha recentemente scritto un libro sul ruolo degli smartphone nel movimento per porre fine alla brutalità della polizia. “Penso che stavolta sia diverso”.

    Le testimonianze

    Innanzitutto, è importante capire a che punto gli smartphone ci hanno portato finora. Molti critici hanno sostenuto che non sono riusciti a porre fine alla violenza della polizia, ma anche che questo obiettivo non potrebbe essere raggiunto senza di loro. Per mobilitare il cambiamento contro una determinata ingiustizia, deve prima esserci un consenso della maggioranza sull’esistenza dell’ingiustizia.

    Ciò è stato particolarmente vero nella lotta contro l’oppressione razzista in America. Nel corso della storia della nazione, i neri americani hanno dovuto persistentemente contrastare la diffusa incredulità sulle violazioni della legalità che devono subire. Per fare ciò, hanno fatto affidamento su testimonianze e documentazione.

    “Abbiamo sempre avuto, in ogni epoca di azioni violente contro i neri, una sorta di prova visiva, a cominciare dalla schiavitù, che ha poi lasciato posto al linciaggio e infine alla brutalità della polizia”, afferma Richardson. “Attraverso le diverse epoche, ci sono stati testimoni neri che hanno usato la tecnologia dei loro giorni per denunciare il razzismo”.

    Per esempio, durante la prima metà del XIX secolo, gli schiavi liberati come Frederick Douglass si affidarono ai giornali e ai discorsi per rappresentare la schiavitù e favorire la formazione di gruppi abolizionisti. Nei primi anni del XX secolo, la giornalista investigativa Ida B. Wells ha fornito statistiche accurate sulla diffusione del linciaggio e ha lavorato con fotografi bianchi per riprendere immagini raccapriccianti di questi attacchi in luoghi in cui lei non poteva andare. Poi, a metà degli anni 1950, leader neri per i diritti civili come Martin Luther King Jr. sfruttarono le telecamere televisive per diffondere le scene brutali di cani poliziotto e cannoni ad acqua utilizzati durante le manifestazioni pacifiche.

    Le testimonianze, in altre parole, hanno svolto un ruolo fondamentale nel sensibilizzare il pubblico di maggioranza bianca e suscitare l’attenzione internazionale. I bianchi e altre fasce della popolazione si allearono con i neri americani fino a quando il sostegno al cambiamento non raggiunse la massa critica.

    Oggi le riprese degli smartphone hanno lo stesso scopo: utilizzare le immagini per dimostrare un abuso diffuso e sistematico e provocare indignazione morale. Ma rispetto alle precedenti forme di testimonianza, gli smartphone sono anche più accessibili, più diffusi e, soprattutto, controllati in molti casi dalle mani di testimoni neri. “È stata una vera transizione”, afferma Richardson, “dai neri che cercavano di attirare lo sguardo dei media alla creazione di contenuti nostri”.

    Questa capacità rende gli smartphone più potenti delle telecamere dei corpi di polizia, che sono diventate popolari dopo la morte di Mike Brown nel 2014 e hanno ricevuto rinnovata attenzione nelle ultime settimane. Perché affidarsi alla presenza di testimoni quando la polizia può essere monitorata in ogni momento? Perché le bodycam sono controllate dalla polizia stessa, quindi non producono la stessa trasparenza e non spingono allo stesso senso di responsabilità. 

    Le bodycam si spengono facilmente e in alcuni casi sono stati usati per falsificare le prove. Poiché le linee guida per la gestione di queste riprese sono redatte dai dipartimenti di polizia, c’è anche poco controllo sul rilascio di filmati grezzi e non modificati (come quello del caso di Floyd). Nel 2017, secondo un’analisi dell’organizzazione nonprofit Upturn, le riprese di 40 delle 105 uccisioni della polizia registrate da bodycam non hanno mai visto la luce del giorno.

    Una delle ricerche su larga scala relativa alla tecnologia, che ha coinvolto più di un migliaio di agenti di polizia, non ha riscontrato differenze statistiche nel comportamento tra coloro che indossavano le telecamere e quelli che non lo facevano. “Le bodycams rafforzano la posizione degli agenti di polizia”, afferma Sam Gregory, direttore del programma sui diritti umani internazionali di Witness, un’altra organizzazione senza scopo di lucro.

    Quindi gli smartphone sono ancora lo strumento migliore per dimostrare la brutalità della polizia e informare l’opinione pubblica. E le prime ricerche del team di Richardson ne hanno avuto conferma esaminando una serie di indicatori. Etichettando le foto dei manifestanti per “razza”, per esempio, hanno scoperto che le manifestazioni attuali sono molto diverse per composizione rispetto alle precedenti proteste. 

    Ciò indica che, come in parte si è già visto in passato, altri gruppi etnici si alleano con i neri. Analizzando le notizie e i social media con l’elaborazione in linguaggio naturale, hanno anche scoperto che, rispetto ad altri casi, stavolta non ci si è chiesti se la vittima fosse una persona rispettabile o abbia fatto qualcosa per meritare la violenza.

    Richardson ha riscontrato questo diverso atteggiamento nei focus group e nelle interviste. In passato, i bianchi esprimevano spesso sentimenti come: “Questa persona non era un angelo”. Anche se Floyd è stato arrestato con l’accusa di aver usato una banconota falsa da 20 dollari, i commenti prevalenti sono: “Sai una cosa? Siamo nel mezzo di una pandemia. Probabilmente farei lo stesso”. Poi indicano la lunga serie di omicidi che rende impossibile negare il razzismo e la brutalità della polizia: George Floyd, Ahmaud Arbery, Philando Castile, Alton Sterling, Eric Garner. (Si veda grafico a lato sulle uccisioni di neri testimoniate da riprese video)

    Nell’analisi delle proteste effettuata da “MIT Technology Review” americana, si è riscontrato che la situazione è diversa. A partire dal 9 giugno, la morte di Floyd ha scatenato 680 manifestazioni, quattro volte di più di qualsiasi omicidio della polizia ripreso in video pubblici. Una raccolta di dati dei sondaggi del blogger politico Kevin Drum arriva alla stessa conclusione. Negli ultimi sei anni, gli americani bianchi si sono lentamente avvicinati agli americani neri nella convinzione che la brutalità della polizia sia una delle principali cause di violenza.

    Uccisioni di neri da parte della polizia riprese nel corso degli anni

    La legislazione

    Ma le riprese non possono risolvere il problema perché raramente portano alla condanna degli agenti coinvolti. L’analisi di Witness suggerisce che di solito conducono, nella migliore delle ipotesi, all’assoluzione delle vittime per false accuse, se sono ancora in vita. E’ il momento di cambiare strategia. Witness ha scoperto, per esempio, che può essere più efficace non pubblicare i filmati dei testimoni occasionali fino a quando non viene rilasciato il rapporto della polizia. 

    In questo modo la polizia non ha l’opportunità di scrivere il proprio rapporto conoscendo le prove e giustificando le azioni di conseguenza. Questo è ciò che ha fatto Feiden Santana, un testimone della uccisione di Walter Scott, che ha avuto un ruolo cruciale nel far accusare l’agente di polizia per l’omicidio di secondo grado.

    Ma si tratta di un caso isolato. Il nodo di fondo sono le protezioni legali fornite alla polizia negli Stati Uniti, che limitano l’efficacia delle prove video. Uno degli esempi tipici è “l’immunità qualificata“, una dottrina legale che offre ai funzionari governativi, compresi gli agenti di polizia, una protezione speciale dalla responsabilità di violare la Costituzione. In sostanza, gli agenti di polizia ottengono un’immunità speciale per le azioni che intraprendono mentre lavorano, spiega Dia Kayyali, di Witness. 

    “Anche quando si comportano in modo violento, proprio in virtù della loro posizione, sono protetti da eventuali azioni legali”. Questo è il modo principale in cui gli agenti di polizia hanno evitato le condanne anche di fronte a prove video inconfutabili. C’è anche lo standard di “ragionevolezza oggettiva”, stabilito 31 anni fa con il caso della Corte suprema degli Stati Uniti Graham v. Connor, in cui si chiese alla corte di valutare se un agente avesse usato la forza in modo ragionevole, pur provocando la morte del sospettato. 

    E poi ci sono le cosiddette “carte dei diritti della polizia”, leggi che esistono con nomi diversi in quasi tutti gli stati per proteggere la privacy di un agente, che rendono praticamente impossibile raccogliere prove dei comportamenti passati di un agente e montare un caso per dimostrare reiterazioni negli abusi.

    Ecco perché la testimonianza degli smartphone deve essere accompagnata da profondi cambiamenti nelle decisioni politiche, afferma Kayyali. Fortunatamente, data l’ampia base di supporto che si è coalizzata grazie alla testimonianza raccolte con gli smartphone, è possibile arrivare ad approvare delle modifiche legislative.

    Dalla morte di Floyd, una coalizione di attivisti di tutto lo spettro politico ha chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di rivedere l’immunità qualificata. Così hanno auspicato i giudici Clarence Thomas e Sonia Sotomayor, che rappresentano i poli ideologici opposti della corte. Al Congresso, i Democratici di Camera e Senato hanno presentato un disegno di legge che semplificherebbe il perseguimento delle forze dell’ordine e la creazione di un registro nazionale che riporta i comportamenti illeciti della polizia. A livello statale, a New York sono ripartiti i tentativi di abrogare la carta dei diritti della polizia, nota come Section 50-A.

    Anche per le strade, i manifestanti hanno chiesto alle loro giurisdizioni locali di “regolamentare i comportamenti della polizia”. Il 7 giugno, durante una manifestazione, il consiglio comunale di Minneapolis ha annunciato il sostegno della maggioranza per sciogliere il dipartimento di polizia. Sia Kayyali che Richardson affermano che tali sviluppi sono nuovi. “Ora siamo in una fase in cui si parla di riforme sostanziali”, afferma Richardson.

    Il copwatching

    Come cambiare effettivamente il comportamento della polizia? Una risposta arriva da Andrea Pritchett, che ha documentato i comportamenti violenti degli agenti locali a Berkeley, in California, per 30 anni. Pritchett è il fondatore di Berkeley Copwatch, un’organizzazione su base volontaria che mira a mettere in luce le responsabilità della polizia locale. Mentre i video degli spettatori si basano sulla presenza casuale di testimoni che riprendono le scene, i membri di Copwatch monitorano l’attività della polizia attraverso scanner portatili della polizia e sono coordinati tra loro.

    Nel corso degli anni, Copwatch ha documentato non solo i casi più gravi di violenza poliziesca, ma anche le violazioni quotidiane meno pubblicizzate, dalle ricerche illegali alla profilazione razziale agli abusi su persone senza fissa dimora. A settembre dello scorso anno, armato di tali filmati, Copwatch ha lanciato una campagna pubblicitaria contro Sean Aranas, un agente particolarmente violento. Il gruppo ha curato una playlist di video della sua condotta violenta e l’ha collegata con un codice QR pubblicato su una serie di volantini. Dopo due mesi di questa campagna, l’agente si è dimesso.

    Per aumentare la consapevolezza che i video dei testimoni hanno suscitato a livello nazionale, Pritchett ritiene che questo tipo di lavoro locale debba essere portato avanti senza sosta. Non si tratta solo di raccogliere filmati, ella spiega, ma di scegliere cosa filmare. A maggio, Copwatch ha lanciato un nuovo database in collaborazione con Witness che consente di inviare i propri filmati. 

    Il database non è pubblico, per evitare problemi di privacy: è noto che le forze dell’ordine gestiscono tali filmati attraverso software di riconoscimento facciale per fare pressioni su chi ha pubblicato i video. Il sistema tagga e cataloga i video inviati in base a ciò che mostrano, il che rende più facile per l’organizzazione ricercarli per argomenti ed espandere il suo playbook: una volta che una certa quantità di filmati viene assemblata su un determinato problema, utilizza i video per organizzare class action e campagne pubblicitarie.

    “Dobbiamo aggiornare le nostre strategie, perché è il 2020”, dice Kayyali. “Purtroppo non è più sorprendente vedere qualcuno pubblicare su Facebook un video di uomini neri che vengono uccisi”. Usare immagini del genere ha lo scopo di incitare all’azione, ma a volte è più traumatizzante che utile.

    Il database offre inoltre alla community un maggiore senso di identità.  Come dice Pritchett: “Non è un progetto imposto dall’alto, meccanico, tecnologico”. Copwatch ha lanciato un kit di strumenti per i gruppi che desiderano creare database simili. In sostanza si tratta non solo di un meccanismo di raccolta di informazioni, ma anche di un sistema di allarme. “Se la comunità avesse raccolto la documentazione in modo rapido e corretto, allora persone come Chauvin sarebbero state identificate già da tempo”, conclude Pritchett. “Quindi la comunità potrebbe muoversi prima di assistere a nuove violenze”.

    Immagine: Manifestanti a Franklin Park, a Boston. Philip Keith

    (rp)

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