Il coronavirus è stato un test e molte delle nazioni più avanzate del mondo hanno fallito in modo evidente. Cosa si può fare di meglio?
di James Crabtree
Il mio primo attacco di panico da coronavirus è arrivato una mattina di gennaio. Un’e-mail con la dicitura “Informazioni importanti” è arrivata dalla scuola elementare di nostro figlio, pochi minuti prima di metterlo sull’autobus. I genitori di uno dei suoi insegnanti, che erano tornati di recente dalla Cina, erano stati contagiati, come risultava dai casi 8 e 9 di Singapore, e l’insegnante in questione era stato messo in quarantena.
Singapore è stata tra i primi paesi ad affrontare un focolaio. Nei mesi successivi, è stato al contempo rassicurante e snervante guardare il passaggio da punto di crisi iniziale a rifugio “sicuro”, che ha offerto una resistenza ostinata contro un invasore che si è infiltrato profondamente in tanti altri paesi.
I primi commenti in Occidente si sono concentrati sui fallimenti del sistema autocratico cinese, che ha nascosto la gravità dell’epidemia di Wuhan, a quello che oggi sappiamo essere un costo catastrofico. Più l’epidemia si è diffusa, più è diventato chiaro che anche le democrazie liberali occidentali l’hanno gestita male, combattendo con gravi focolai che avrebbero potuto – forse – essere evitati.
Tuttavia, ha poco senso considerare il coronavirus come una sorta di test perverso di vitalità per i regimi liberali e autoritari. Dovremmo invece imparare dai paesi che hanno risposto in modo più efficace, vale a dire le democrazie tecnocratiche avanzate dell’Asia, il gruppo un tempo noto come “Tigri asiatiche”.
In Occidente il virus ha rivelato scricchiolanti servizi pubblici e divisioni politiche. Ma Hong Kong, Giappone e Corea del Sud sono riusciti meglio, mentre Singapore e Taiwan hanno tenuto quasi completamente sotto controllo la malattia, almeno per ora.
Le lezioni da imparare
In parte ciò dimostra i vantaggi dell’esperienza. Le “tecnocrazie” asiatiche, secondo il pensiero dello studioso di geopolitica Parag Khanna, hanno fronteggiato le epidemie di SARS a partire dal 2002, così come nel 2009 il meno potente virus dell’influenza H1N1. Queste esperienze hanno aiutato i responsabili del governo a sviluppare i piani di gestione delle epidemie e lo stoccaggio di beni essenziali.
Taiwan ha accumulato milioni di maschere chirurgiche, tute e respiratori N95 per il personale medico e ne ha conservati decine di milioni per i cittadini. È stato anche grazie in parte alla SARS che i paesi asiatici hanno compreso la necessità di un’azione rapida, come ha osservato Leo Yee Sin, capo dell’NCID, all’inizio di gennaio. In quei giorni, la covid-19 veniva ancora definita una “polmonite misteriosa”. In tutta la regione, i passeggeri dei voli da zone colpite della Cina sono stati sottoposti a controlli della temperatura obbligatori.
Mentre la crisi si approfondiva, quei voli sono stati cancellati e i confini sigillati. Non tutti i paesi hanno seguito lo stesso modello di risposta: Hong Kong e il Giappone hanno chiuso da subito le loro scuole, mentre Singapore le ha mantenuto aperte. Ma tutti hanno agito rapidamente, con risposte coordinate dagli esperti.
Sono sorti anche nuovi centri terapeutici, tra cui il National Centre for Infectious Diseases (NCID) di Singapore, una struttura da 330 posti letto aperta lo scorso anno, a 10 minuti di auto dal mio ufficio. Un amico – il caso 113 di Singapore – è finito lì per settimane a marzo, dopo aver subito il contagio durante un viaggio in Europa e aver iniziato ad accusare sintomi durante il suo volo di ritorno a casa. E’ stato portato per la prima volta al centro per un test.
La scena era post-apocalittica, con tutti in tute di plastica con grandi occhiali e maschere, in stanze piene di pareti di plastica, ma il mio amico è stato mandato a casa in isolamento, in attesa dei risultati. Ha ricevuto una chiamata qualche ora dopo. “Mi hanno detto: ‘Il tuo test è positivo'”, ha ricordato, mentre era ancora in isolamento al centro a fine marzo. “L’ambulanza arriverà lì tra 20 minuti. Prepara le tue cose”.
Anche la tecnologia ha avuto il suo peso. La Cina ha dispiegato una sorveglianza ampia e invasiva per tenere sotto controllo la diffusione del virus, spingendo i giganti della tecnologia a rintracciare e monitorare centinaia di milioni di cittadini. Le nuove app hanno proliferato, in particolare l’Health Code di Alipay, che ha assegnato agli utenti una valutazione con i colori verde, giallo o rosso, in base ai loro dati sanitari personali. L’app, che condivideva informazioni con la polizia cinese e altre autorità, ha di fatto deciso chi doveva essere messo in quarantena a casa e chi no.
Le democrazie asiatiche hanno spesso intrapreso strade di base diverse, monitorando e gestendo l’epidemia con strumenti non più avanzati di telefoni, mappe e database. Singapore in particolare ha lanciato un sistema apprezzato di tracciamento dei contatti, in cui squadre centralizzate di dipendenti pubblici hanno rintracciato e contattato coloro che potrebbero essere stati contagiati.
Le telefonate di avvertimento hanno risvolti scioccanti. Mentre una persona stava al lavoro, arrivava una chiamata dal Ministero della Salute che informava educatamente che pochi giorni prima aveva preso un taxi con un autista successivamente ammalatosi, o si trovava in un ristorante seduta accanto a un cliente ammalato. L’ordine era quello di correre a casa e autoisolarsi.
Ai possibili contagiati potevano essere rivolte domande per ore. “Mi hanno fatto sedere e mi hanno “interrogato” sul mio viaggio: ogni giorno, minuto per minuto”, mi ha detto il mio amico. “Dove sono andato? Quale taxi ho preso? Con chi ero? Per quanto?” Il tracciamento dei miei spostamenti è stato laborioso, ma ha prodotto risultati impressionanti. Quasi la metà delle circa 250 persone contagiate a Singapore a metà marzo hanno scoperto per la prima volta di essere a rischio quando qualcuno del governo le ha chiamate.
Altrettanto efficiente è stato il regime di test della Corea del Sud, che a gennaio ha costretto le aziende sanitarie locali a lavorare insieme per sviluppare nuovi kit e poi li ha implementati velocemente, consentendo ai responsabili politici di monitorare la diffusione della pandemia. A fine marzo, la Corea del Sud aveva sottoposto a test circa 300.000, all’incirca lo stesso numero degli Stati Uniti, ma in un paese con una popolazione pari a un sesto.
Le comunicazioni sono state chiare
La trasparenza è stata un altro fattore, sebbene forse meno prevedibile nelle società più autocratiche dell’Asia. È vero, all’inizio la copertura mediatica è stata più attenuata e rispettosa in paesi come il Giappone e Singapore che in luoghi come il Regno Unito, dove i resoconti impietosi hanno messo in evidenza tutti i tipi di dettagli che le autorità pubbliche avrebbero preferito minimizzare, come i piani di emergenza per aprire un obitorio a Hyde Park a Londra.
Tuttavia, la comunicazione aperta da parte dei governi è stata un modello coerente nelle risposte di maggior successo dell’Asia. Singapore ha pubblicato importanti annunci pubblicitari in prima pagina sui media, comprese le prime campagne per cercare di impedire ai cittadini senza sintomi di acquistare maschere chirurgiche e lasciarne privi coloro che ne avevano bisogno. Taiwan e la Corea del Sud hanno fornito dati affidabili e aperti ai cittadini, insieme a puntuali conferenze sui social media.
Con il peggiorare della pandemia, ho fatto un viaggio negli Stati Uniti, passando attraverso sistemi di controlli della temperatura e scanner del calore corporeo che da allora fiancheggiavano i corridoi dell’aeroporto di Changi. Per la settimana in cui sono stato all’estero, ho ricevuto aggiornamenti sul mio telefono circa tre volte al giorno dal governo di Singapore tramite WhatsApp, con dettagli su nuovi contagi e su ciò che le autorità stavano facendo in risposta.
Questa attenzione alla diffusione delle informazioni è stata un’altra lezione delle epidemie precedenti. Durante la crisi della SARS, e della MERS nel 2015, le amministrazioni in paesi come la Corea del Sud sono state criticate per aver nascosto informazioni ai cittadini. Questa volta sembrano aver ritenuto che frequenti aggiornamenti da parte di politici ed esperti di salute siano una tecnica più efficace contro la disinformazione virale.
Questo non vuol dire che tutto sia stato perfetto. Il Giappone ha risposto in modo confuso all’arrivo della nave da crociera Diamond Princess a Yokohama e, come gli Stati Uniti, ha affrontato persistenti interrogativi a causa della propria mancanza di sistemi di test.
Anche il governo di Hong Kong è stato ampiamente criticato, a seguito delle recenti proteste di strada che hanno gravemente eroso la fiducia dei cittadini che, tuttavia, hanno mostrato una straordinaria capacità di autoisolarsi, il che può essere in parte dovuto al fatto che diffidano della capacità dello stato di risolvere la crisi e non perché seguono alla lettera gli ordini del governo.
In effetti, gli esempi di Hong Kong e Taiwan, a sua volta una democrazia “indisciplinata”, fanno capire che il successo delle nazioni asiatiche in questa crisi non è dovuto al fatto che i loro cittadini obbediscono senza discutere alle regole, rispetto a un maggior spirito libero degli occidentali.
Questa idea riecheggia un vecchio leitmotiv razzista sulle cosiddette culture “confuciane”, che pensatori come lo scienziato politico americano Samuel Huntington descrivono come gerarchiche, rispettose dell’ordine e non competitive. Come quando si parla di “virus cinese” o di episodi di sinofobia agli angoli delle strade americane, questa linea di pensiero ci dice poco sul perché alcuni paesi abbiano ottenuto buoni risultati e altri no.
La chiave è nella preparazione
Solo lo scorso ottobre, l’Economist Intelligence Unit ha pubblicato un lungo rapporto che classifica le nazioni in base alla preparazione globale all’epidemia. Gli Stati Uniti sono risultati in testa, seguiti da Gran Bretagna e Paesi Bassi; Il Giappone e Singapore erano rispettivamente al 21emo e 24emo posto. Questa classifica si è dimostrata completamente sbagliata.
L’Asia ha fornito molti esempi di politiche che hanno funzionato – dalla rapida costruzione di un ospedale in Cina ai test rapidi della Corea del Sud fino al monitoraggio dei contatti di Singapore e alla comunicazione pubblica aperta, mentre in Occidente i governi si sono mossi in modo incoerente.
Il filo conduttore che ha unito i paesi, democratici o meno, che hanno risposto bene alla crisi è stato l’unità interna. La difesa della salute pubblica ha guidato la politica, piuttosto che il contrario. È probabile che questa verità emerga in modo evidente quando il virus si diffonderà in altre parti dell’Asia e in zone come l’India e l’Africa sub-sahariana, dove la capacità dello stato è notoriamente debole.
Molti di questi paesi hanno cercato di isolare le loro popolazioni, come hanno fatto le economie avanzate prima di loro. Ma anche se possono rallentare la diffusione del virus, non hanno il vantaggio di sistemi sanitari organizzati, e tanto meno di test e app di tracciamento dei contatti che hanno tenuto al sicuro gran parte dell’Asia.
Il vantaggio asiatico in termini di competenza potrebbe non resistere alle prossime fasi della crisi da covid-19, poiché l’attenzione si sposta ora sulla gestione di una drammatica recessione economica, un’area in cui molte amministrazioni occidentali hanno recenti esperienze a seguito della recessione del 2008.
Governi come quelli della Gran Bretagna e degli Stati Uniti hanno già messo in campo considerevoli pacchetti di stimoli. Ma è innegabile che, mentre hanno lottato per riprendersi da quella crisi finanziaria, le economie liberali occidentali hanno trascurato la sanità pubblica e la preparazione alla pandemia che gli stati asiatici hanno continuato a curare con attenzione. Il coronavirus è stato un test e le nazioni presumibilmente più avanzate del mondo hanno chiaramente fallito.
Tutto ciò è dannoso per la reputazione globale degli Stati Uniti in particolare. E’ stato solo nel 2014 che l’amministrazione Barack Obama ha guidato una risposta globale allo scoppio dell’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale. Ora, sei anni dopo, Donald Trump è riuscito a malapena a organizzare una risposta nel suo paese.
La Cina sta già sfruttando quanto successo per dichiarare la superiorità del suo modello di governo autocratico. Sarebbe una cattiva lezione da trarre. Ciò che conta invece è una nuova divisione tra due tipi di paesi: quelli in grado di pianificare a lungo termine, agire con decisione e investire per il futuro, e quelli che non lo sanno fare.
James Crabtree è professore associato presso la Lee Kuan Yew School of Public Policy della National University di Singapore. È autore di The Billionaire Raj.
(rp)