Tra la economia lineare e l’economia circolare si gioca il problema della sostenibilità nelle sue diverse e talvolta contrapposte accezioni: produrre di meno, produrre meglio, continuare a produrre. In ogni caso in discussione resta il paradigma di una crescita a oltranza, basato sul rapporto stringente tra produzione e consumo.
di Gian Piero Jacobelli
Spesso la scelta degli aggettivi significa anche più di quanto significhi la scelta dei sostantivi. Questo ci sembra il caso di una delle espressioni più ambigue della riflessione sulla crisi economica che, anche indipendentemente dalle circostanze sfavorevoli della pandemia, assilla da tempo governanti e governati.
Stiamo parlando della cosiddetta “economia circolare”, un concetto prima ancora di un termine, che sembra risalire all’economista visionario Kenneth E. Boulding, il quale, in un articolo del 1966 sulla “circolarità” nell’utilizzazione delle materie prime e delle risorse energetiche, lanciò l’idea della Terra come una “navicella spaziale” che dispone di un quantitativo limitato di risorse e possibilità di smaltimento dei rifiuti.
Nel 1971 Barry Commoner, celebre maestro dell’ambientalismo, riprese il tema del “cerchio da chiudere”. Dalla tradizionale economia del cowboy, che dispone di spazi sconfinati, si passa a quella innovativa dell’astronauta, segnata dal limite delle disponibilità.
Di economia circolare si è continuato a parlare di tempo in tempo, sino alle odierne, insistenti prese di posizione da parte degli organismi rappresentativi continentali e mondiali. Ciò induce ad almeno due considerazioni: che, nonostante ogni buona intenzione, non siamo ancora riusciti a dalle parole ai fatti; che alcune difficoltà dell’implementazione di una economia circolare risiedono proprio nell’ambiguità del concetto di “circolare”. Tralasciando per il momento che anche il concetto di “economia” non manca di suscitare perplessità, se non altro in merito ai suoi ambiti di applicazione.
Resta che intorno alla economia circolare si aggregano molte delle possibili soluzioni della incalzante crisi economica: soluzioni che possono venire sintetizzate in quella istanza della “sostenibilità” purtroppo affetta dalla stessa genericità e dallo stesso feticismo di ogni formula magica, dal momento che per lo più non ci si chiede cosa deve essere sostenibile e per chi e in che misura. Non a caso anche per la sostenibilità riemerge la sconcertante constatazione che spesso le formule magiche, nonostante tutto il loro presunto potere, vengono utilizzate per scopi molto marginali e talvolta strumentali.
Le molteplici perplessità nei confronti della economia circolare fanno spesso riferimento alle tante istanze che vi confluiscono e che talvolta appaiono intrinsecamente contraddittorie. Si pensi per esempio a quella di prolungare la durata dei prodotti per non generare rifiuti in eccesso, a fronte di quella di riutilizzare i rifiuti per produrre qualcosa di strutturalmente e funzionalmente diverso, sia sul versante materiale sia su quello energetico.
In altre parole, la sistematica adozione dell’economia circolare – che dovrebbe derivare da una radicale trasformazione del sistema di valori su cui si fonda la civiltà attuale, sottraendola al fascino dell’usa e getta, della moda, del “consumo vistoso” come lo definiva già nell’Ottocento il sociologo americano Thorstein Veblen – non sempre appare sostanzialmente alternativa alla economia lineare, in cui le risorse vengono impiegate e disperse in ragione di motivazioni meramente commerciali e concorrenziali.
In effetti, la versione dell’economia circolare in cui si prevede un riciclo delle merci per produrre le stesse o altre merci, presuppone una ingannevole circolazione economica, orientata sempre in una sola direzione: quella insindacabile che va da chi produce a chi consuma. Non sorprende, quindi, che da questo nuovo modello produttivo siano scaturite inedite opportunità promozionali, soprattutto per le attività innovative che strumentalizzano le suggestioni differenziali dell’economia circolare, nonostante le sue perduranti incertezze operative.
Si tratta, in altre parole, di una versione radicalmente diversa dalla economia circolare di stampo per così dire antropologico, dove a circolare sono i valori simbolici: bracciali e collane nel caso del sistema Kula, individuato e descritto magistralmente all’inizio dello scorso secolo nell’arcipelago delle Trobriand dal grande antropologo Bronislaw Malinowski; ovvero il denaro, nel caso a noi più familiare di un sistema di scambi che fa leva su mediatori rappresentativi in grado nel tempo di cambiare le stesse ragioni di scambio in un incessante passaggio, circolare appunto, dai “segni” ai “sogni” e viceversa.
Per quanto venga prospettata come un punto di vista in grado di rovesciare i valori che hanno dominato il XX secolo, nell’economia circolare sono rintracciabili alcuni non trascurabili punti critici. In particolare, la persistente disuguaglianza delle opportunità e delle aspettative implicite in un sistema in cui tutte le attività produttive sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun altro e viceversa.
In altre parole, non sembra mutare sul serio il rapporto fondamentale tra produzione e consumo, che al contrario viene per quanto possibile perpetuato oltre le sue stesse contraddizioni. Risultano così trascurate o rimosse soluzioni più radicali come per esempio quella, per altro non priva di una utopistica criticità, della “decrescita felice” proposta nei primi anni Duemila dal filosofo ed economista Serge Latouche e ispirata a un diverso equilibrio tra esigenze umane e risorse naturali. In base al principio per cui il prodotto più sostenibile resta quello che non si produce, perché non è necessario . Puntare sul riciclo implica, infatti, un ulteriore eccesso produttivo connesso alle attività necessarie per prolungare il ciclo di vita dei prodotti correnti; attività non prive di impatto ambientale.
Come genialmente scriveva Italo Calvino nelle sue Città invisibili, a proposito di Leonia, la città in cui ogni giorno si getta tutto quanto utilizzato nel giorno precedente, che “più l’arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e comburenti. È una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne”.
In fondo, a pensarci bene, anche le buone idee possono finire per avvolgerci in modo tale da impedirci di vedere che, come si dice, il meglio è spesso nemico del bene.
(gv)