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    C’è spazio per un nuovo tecno-ottimismo?

    A venti anni di distanza dalla nostra prima lista annuale delle 10 tecnologie innovative, è arrivato il momento di verificare le promesse mantenute e trarne alcune lezioni.

    di David Rotman

    Vent’anni fa, “MIT Technology Review” ha selezionato 10 aree di innovazione emergenti che promettevano di “cambiare il mondo”. Era il periodo di punta del tecno-ottimismo. Il boom delle dot-com stava per implodere e alcuni addetti ai lavori parlavano di fine della Legge di Moore e lo sostengono ancor oggi, anche se l’industria continua a trovare modi per rendere i computer più potenti. Ma per molti versi è stato un periodo glorioso per la scienza e la tecnologia.

    Una bozza di lavoro del genoma umano è stata pubblicata nel febbraio 2001, un modello genetico che prometteva di rivelare i nostri segreti biologici più profondi. Nello stesso periodo si è verificata una grande eccitazione per le scoperte nel campo della nanotecnologia. I primi progressi nel calcolo quantistico e molecolare hanno fatto presagire una nuova era di calcolo post Legge di Moore. E poi c’era quel fantastico motore di ricerca con il nome divertente, che guadagnava rapidamente utenti e cambiava il modo in cui si navigava nel web e si accedeva alle informazioni. 

    Vale la pena, ora, guardare indietro al TR10 iniziale, per verificare quanti progressi sono stati fatti. Innanzitutto, riconosciamo che si trattava di un elenco pderato. Abbiamo evitato gli esoscheletri robotici e la clonazione umana, così come la nanofabbricazione molecolare e la temuta sostanza grigia dei nano apocalittici, tutti temi scottanti allora. Ci siamo, invece, concentrati sui progressi fondamentali nella tecnologia dell’informazione, nei materiali e nelle biotecnologie. La maggior parte delle tecnologie di allora sono ancora familiari: data mining, elaborazione del linguaggio naturale, microfluidica, interfacce cervello-macchina, biometria (come il riconoscimento facciale) e progettazione di robot. 

    Quindi quale lezioni si possono ricavare dai risultati delle tecnologie elencate due decenni fa? 

    Lezione 1: 
    Il progresso è spesso lento

    La nostra prima selezione, interfacce cervello-macchina, inizia con una descrizione del neuroscienziato Miguel Nicolelis che registra i segnali elettrici dal cervello di una simpaticissima scimmia notturna di nome Belle mentre pensa a come ottenere qualche goccia di succo di mela. Un salto in avanti alla fine dell’estate 2020, quando Elon Musk mostra i segnali cerebrali di un maiale molto carino di nome Gertrude, guadagnando ooh e ahh dai fan adoranti che partecipano alla dimostrazione per Neuralink, la sua startup di macchine cerebrali. 

    Un osservatore dell’evento di Musk avrebbe potuto essere perdonato per essersi chiesto se fossero davvero passati 20 anni dall’esperimento di Nicolelis. Entrambi gli uomini avevano visioni simili, vale a dire collegare direttamente il cervello ai dispositivi informatici tramite chip impiantati.Come ha scritto nel 2001 il nostro direttore del settore biomedico, Antonio Regalado, “Nicolelis vede questo tentativo come parte della rivoluzione imminente che avrebbe potuto rendere le interfacce cerebrali comuni come i Palm Pilot”. 

    Questa affermazione si è avverata, ma solo grazie alla scomparsa dei Palm Pilots, non alla diffusione delle interfacce cervello-macchina. Nonostante alcuni incoraggianti esperimenti umani nel corso degli anni, tali interfacce rimangono una singolarità scientifica e medica. A quanto pare, la neuroscienza è un settore complesso. Si sono avuti successi nella riduzione delle componenti elettroniche e nella produzione di impianti wireless, ma i progressi nella scienza sono stati più lenti, impedendo alle visioni di Nicolelis e Musk di realizzarsi. 

    Una nota in calce alla lezione uno: il successo spesso dipende dal fatto che una serie di progressi possano realizzarsi tutti insieme. Rendere pratiche le interfacce cerebrali richiede progressi sia nella ricerca scientifica sia nei gadget. 

    Lezione 2: 
    A volte ci vuole una crisi

    Abbiamo scelto la microfluidica nel 2001 a causa di alcuni notevoli progressi nello spostamento di piccole quantità di campioni biologici su un piccolo dispositivo, un cosiddetto lab-on-a-chip. Questa tecnologia prometteva di produrre test diagnostici rapidi e automatizzare esperimenti farmacologici e genomici. 

    Da allora, la microfluidica ha trovato applicazioni preziose nella ricerca in biologia. Si sono realizzati progressi rilevanti, come test diagnostici su carta ultra-economici e facili da usare (“Paper Diagnostics” era un TR10 nel 2009). Ma il campo non ha mantenuto la sua promessa di trasformare i test. Semplicemente non c’è stato un boom della domanda per la tecnologia. Il covid-19 ha posto fine al ristagno del settore in quanto i test convenzionali si basano su procedure multistep eseguite in un laboratorio analitico e questo processo è costoso e lento. All’improvviso, c’è forte richiesta di una soluzione lab-on-a-chip veloce ed economica. 

    Ci sono voluti alcuni mesi ai ricercatori per rispolverare la tecnologia, ma ora si sta affermando una diagnostica per il covid che utilizza la microfluidica. Queste tecniche, inclusa quella che impiega l’editing genetico CRISPR, promettono di rendere i test covid molto più accessibili e ampiamente diffusi. 

    Lezione 3:
    Più attenzione a cosa si desidera

    Nel 2001, Joseph Atick, uno dei pionieri della biometria, ha visto il riconoscimento facciale come un modo per le persone di interfacciarsi con i loro dispositivi e computer in modo più sicuro e semplice. I telefoni cellulari e gli assistenti digitali personali avrebbero avuto un modo sicuro per riconoscere i loro proprietari, determinando la fine di PIN e password. Parte di quella visione alla fine si è avverata con applicazioni come FaceID di Apple. Ma anche il riconoscimento facciale ha preso una svolta che ora Atick definisce “scioccante”. 

    Nel 2001, gli algoritmi di riconoscimento facciale erano limitati. Richiedevano istruzioni dagli umani, in forma matematica, su come identificare i tratti distintivi di un volto. E il database dei volti da riconoscere doveva essere faticosamente scansionato all’interno del software. Poi è arrivato il boom dei social media. 

    Mentre nei primi giorni, dice Atick, sarebbe stato entusiasta di 100.000 immagini nei database di riconoscimento facciale, improvvisamente gli algoritmi di apprendimento automatico potevano essere addestrati su miliardi di volti, attinti da Facebook, LinkedIn e altri siti. Adesso ci sono centinaia di questi algoritmi che si auto addestrano, semplicemente confrontando le immagini, senza bisogno di un aiuto umano esperto.  

    Ma questo notevole progresso è arrivato con un compromesso: nessuno capisce veramente il ragionamento che usano le macchine. Ciò apre un fronte problematico perchè il riconoscimento facciale è sempre più utilizzato per attività delicate come l’identificazione di sospetti criminali. “Non immaginavo un mondo in cui queste macchine avrebbero preso il sopravvento e avrebbero preso decisioni per noi”, afferma Atick. 

    MIT Technology Review

    Lezione 4:
    La traiettoria del progresso è importante

    “Ciao di nuovo, Sidney P. Manyclicks. Abbiamo un consiglio per te. I clienti che hanno acquistato questo prodotto hanno acquistato anche … “. I motori di raccomandazione descritti in questo incipit di un nostro articolo del 2001 sul data mining, sembravano impressionanti all’epoca. Anche un altro potenziale utilizzo del data mining intorno al 2001 suonava elettrizzante: le librerie video ricercabili dal computer. Oggi sembra tutto assolutamente banale.

    Grazie alla potenza di calcolo sempre crescente, alle dimensioni esponenziali dei database e ai progressi strettamente correlati nell’intelligenza artificiale, il data mining (il termine è ora spesso intercambiabile con AI) governa il mondo degli affari. È la linfa vitale delle grandi aziende tecnologiche, da Google e la sua controllata YouTube ad Amazon e Facebook. Alimenta la pubblicità e le vendite di tutto, dalle scarpe alle assicurazioni, utilizzando motori di raccomandazione personalizzati.

    Eppure questi grandi successi mascherano un fallimento di fondo che è diventato particolarmente evidente durante la pandemia. Non abbiamo sfruttato la potenza dei big data nelle aree che contano di più. In quasi ogni fase, dai primi segni del virus ai test e all’ospedalizzazione fino al lancio dei vaccini, abbiamo perso molte opportunità per raccogliere dati ed estrarli per informazioni critiche. 

    Avremmo potuto imparare molto di più su come il virus si diffonde, come si evolve, come trattarlo e come allocare le risorse, salvando potenzialmente innumerevoli vite. Non abbiamo mai dato prova di avere la più pallida idea di come raccogliere i dati di cui avevamo bisogno.

    Nel complesso, quindi, le 10 tecnologie che abbiamo scelto nel 2001 sono ancora rilevanti.  Nessuna di loro è stata abbandonata e alcune sono state successi notevoli, che hanno persino cambiato il mondo. Ma la vera prova del progresso è più articolata: queste tecnologie hanno reso le nostre vite non solo più comode, ma anche migliori? Come misuriamo questo progresso?

    Cosa ci rende felici?

    Il modo comune per valutare il progresso economico è misurare il prodotto interno lordo (PIL). È stato formulato negli anni 1930 negli Stati Uniti per aiutarci a capire quanto bene l’economia si stesse riprendendo dalla Grande Depressione. Sebbene uno dei suoi principali architetti, Simon Kuznets, abbia avvertito che il PIL non dovrebbe essere scambiato per una misura del benessere del paese e della prosperità della sua gente, generazioni di economisti e politici hanno fatto proprio questo ragionamento, esaminando i numeri del PIL alla ricerca di indizi alla salute dell’economia e persino del ritmo del progresso tecnologico.

    Gli economisti estraggono ciò che chiamano produttività totale dei fattori (TFP) dalle statistiche del PIL. Si tratta di una misura di quanto l’innovazione contribuisce alla crescita. In teoria, le nuove invenzioni dovrebbero aumentare la produttività e far crescere l’economia più velocemente. Eppure il quadro non è stato eccezionale negli ultimi due decenni. Dalla metà degli anni Duemila, poco dopo il nostro primo elenco TR10, la crescita della TFP è stata lenta e deludente, soprattutto considerando il flusso di nuove tecnologie provenienti da luoghi come la Silicon Valley. 

    Alcuni economisti pensano che la spiegazione potrebbe essere che le nostre innovazioni non sono così decisive come pensiamo. Ma è anche possibile che il PIL, progettato per misurare la produzione industriale della metà del XX secolo, non tenga conto dei vantaggi economici dei prodotti digitali, soprattutto quando sono gratuiti, come motori di ricerca e social media.

    L’economista di Stanford Erik Brynjolfsson e i suoi colleghi hanno creato una nuova misura per cercare di valutare il contributo di questi beni digitali. Chiamato GDP-B (la “B” sta per i benefici), viene calcolata utilizzando sondaggi online per chiedere alle persone quanto apprezzano i vari servizi digitali. Quanto si vorrebbe essere pagati, per esempio, per vivere un mese senza Facebook?

    I calcoli suggeriscono che i consumatori statunitensi hanno guadagnato, solo da Facebook, circa 225 miliardi di dollari di valore non calcolato ufficialmente. Wikipedia ne ha portati altri 42 miliardi di dollari. Non è chiaro se il PIL-B possa spiegare appieno l’apparente rallentamento della produttività, ma fornisce la prova che molti economisti e responsabili politici potrebbero aver sottovalutato la rivoluzione digitale. Questo ragionamento, afferma Brynjolfsson, ha importanti implicazioni su quanto dovremmo investire nell’infrastruttura digitale e dare la priorità ad alcune aree di innovazione.

    Il PIL-B fa parte di una serie più ampia di ricerche per trovare statistiche che riflettano più accuratamente i cambiamenti importanti. L’idea non è di eliminare il PIL, ma di integrarlo con altri parametri che riflettono più ampiamente ciò che potremmo chiamare “progresso”. Un’altra misura di questo tipo è il Social Progress Index, che è stato creato da una coppia di economisti, Scott Stern del MIT e Michael Porter di Harvard. 

    L’indice raccoglie dati da 163 paesi su fattori tra cui la qualità ambientale, l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, le morti per incidenti stradali e la criminalità. Mentre i paesi più ricchi tendono a fare meglio, Stern afferma che l’idea è di guardare dove il progresso sociale diverge dal PIL pro capite. Ciò mostra come alcuni paesi, anche quelli poveri, siano migliori di altri nel trasformare la crescita economica in preziosi cambiamenti sociali. 

    Fonte: IPSOS / Social Progress Imperative

    L’indagine di 13 paesi mostra il divario generazionale

    “Quando la pandemia covid-19 sarà finita … a cosa dovrebbe dare la priorità il vostro paese?” (Si veda grafico Ipsos). Gli Stati Uniti, con uno dei più alti livelli mondiali di PIL pro capite, sono al 28° posto nell’indice ed sono uno dei soli quattro paesi i cui punteggi sono diminuiti dal 2014. La Norvegia, che è altrettanto ricca, si è classificata prima nel 2020 (si veda grafico con ranking). Anche alcuni paesi più poveri hanno prestazioni migliori. 

    “Molto spesso le decisioni su innovazione e tecnologia riguardano il loro impatto economico”, afferma Stern. “Non c’è niente di sbagliato in questo. Ma stiamo dirigendo le risorse economiche verso quelle aree che faranno progredire il progresso sociale?”. Un pensiero simile sta dietro a un’altra alternativa al PIL, sviluppata da Diane Coyle e dai suoi colleghi del Bennett Institute for Public Policy di Cambridge, nel Regno Unito.

    La loro misura di ciò che chiamano economia della ricchezza si basa su ciò che definiscono come le ricchezze di una società, ossia il suo capitale umano (la salute e le capacità delle sue persone), il capitale naturale (le sue risorse e la salute dell’ambiente) e il capitale sociale (fiducia e coesione interna).

    È un progetto estremamente ambizioso che tenta di creare un paio di valori chiave per ogni risorsa. Questi numeri, dice Coyle, hanno lo scopo di informare meglio le decisioni sulla tecnologia e l’innovazione, comprese le decisioni sulle priorità per gli investimenti governativi. A suo parere, questo sistema consente di chiedere: “Che cosa fa la tecnologia per le persone?”.

    Il valore di queste alternative al PIL è che forniscono un quadro più ampio di come le nostre vite stanno cambiando a causa della tecnologia. Se fossero state in vigore 20 anni fa, avrebbero potuto far luce sulle crisi che non siamo riusciti a prevedere, allo stesso modo della crescita della disparità di reddito e il rapido deterioramento del nostro clima. 

    La speranza è rinata

    Circa un decennio fa, la narrativa tecno-ottimista ha iniziato a sgretolarsi. Nel 2011 Tyler Cowen, un economista della George Mason University in Virginia, ha scritto The Great Stagnation, sostenendo che le tecnologie che sembravano così impressionanti all’epoca, in particolare i social media e le app per smartphone, stavano facendo poco per stimolare la crescita economica e migliorare la vita delle persone. 

    The Rise and Fall of American Growth, un bestseller di oltre 700 pagine del 2016 di Robert Gordon, un altro importante economista, descrive in dettaglio le ragioni del rallentamento della TFP dopo il 2004. Il boom temporaneo di Internet, ha dichiarato, era finito. I libri hanno contribuito a dare il via a un’era di tecno-pessimismo, almeno tra gli economisti. 

    E negli ultimi anni, problemi come la disinformazione sui social media, la precarietà dei lavoratori della gig-economy e gli usi più inquietanti del data mining hanno alimentato la sensazione che le Big Tech non solo non stiano migliorando la società, ma stiano peggiorando la situazione. 

    In questi giorni, tuttavia, Cowen sta tornando al campo degli ottimisti. Continua a chiedere ulteriori ricerche per definire il progresso, ma sostiene che è “una storia più positiva” rispetto a pochi anni fa. L’apparente successo dei vaccini per il covid basati sull’RNA messaggero lo ha esaltato. Così come le scoperte dell’intelligenza artificiale sul ripiegamento delle proteine, il potente strumento di modifica genetica CRISPR, nuovi tipi di batterie per veicoli elettrici e i progressi nell’energia solare. 

    Un previsto boom di finanziamenti da parte dei governi e delle imprese potrebbe amplificare l’impatto di queste nuove tecnologie. Il presidente Joe Biden ha promesso centinaia di miliardi di spese per le infrastrutture, di cui oltre 300 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni per la ricerca e lo sviluppo. L’UE ha la sua massiccia proposta di legge sugli stimoli. Ci sono, inoltre, segni di un nuovo ciclo di investimenti in capitale di rischio, soprattutto mirati alla tecnologia verde. 

    Se i tecno-ottimisti hanno ragione, le nostre 10 tecnologie rivoluzionarie per il 2021 potrebbero avere un futuro luminoso. La scienza alla base dei vaccini a mRNA potrebbe aprire una nuova era della medicina in cui manipoliamo il nostro sistema immunitario per trasformare le terapie anti cancro, tra le altre cose. Le batterie al litio metallo potrebbero finalmente rendere le auto elettriche appetibili per milioni di consumatori. L’idrogeno verde potrebbe aiutare a sostituire i combustibili fossili. I progressi che hanno reso possibile GPT-3 potrebbero portare a computer “intelligenti” nel campo dell’AI. 

    Tuttavia, il destino delle tecnologie nell’elenco del 2001 ci dice che il progresso non avverrà solo a causa delle scoperte stesse. Avremo bisogno di nuove infrastrutture per l’idrogeno verde e le auto elettriche, nuove ricerche per la scienza dell’mRNA  e un nuovo modo di pensare intorno all’AI e alle opportunità che offre nella risoluzione dei problemi sociali. In breve, abbiamo bisogno di volontà politica.

    Ma la lezione più importante dall’elenco del 2001 è la più semplice: se queste scoperte soddisferanno il loro potenziale dipende da come scegliamo di usarle. E forse questa è la ragione principale del rinnovato ottimismo, in quanto sviluppando nuovi modi di misurare il progresso, come stanno facendo gli economisti come Coyle, possiamo anche creare prospettive diverse di sviluppo di queste tecnologie. Se riusciamo a vedere oltre la crescita economica tradizionale e iniziamo a misurare come le innovazioni migliorano la qualità della vita di quante più persone possibile, abbiamo maggiori possibilità di creare un mondo più giusto.

    (rp)

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