La definizione della condizione moderna come tecnologica invita a un profondo ripensamento della socializzazione, della formazione, del divertimento e di come tutte queste pratiche vanno drasticamente riconfigurandosi.
di Mario Morcellini
Nel tentativo di afferrare il nostro tempo, definire la condizione moderna come una condizione tecnologica è un’assunzione ricca di conseguenze teoriche e interpretative.
Fra le formule più note, quelle di “post-moderno” e “post-industriale” procedono per via negationis: come se per definire un’epoca fosse indispensabile sancire la fine del tempo precedente, usando per l’appunto il prefisso post. Affermare invece che la condizione moderna è anzitutto una condizione tecnologica ha il vantaggio di definire i nostri anni e la nostra società non in negativo, bensì facendosi carico di alcuni livelli macroscopici di discontinuità che riguardano, anzitutto, l’attore sociale, la persona, il cittadino-consumatore.
Quello in cui viviamo è un tempo tecnologico. Non c’è dubbio, infatti, che una delle forme più decisive di appartenenza, partecipazione e abilitazione ai rapporti sociali è oggi legata alla socializzazione alle tecnologie: quelle nuove e nuovissime che, insieme alla tradizionale offerta generalista, contribuiscono oggi all’ampliamento della capacità di presa dei soggetti sociali sulla realtà e, quindi, all’incremento delle possibilità di interazione e di intersoggettività.
La prima conseguenza di questo assunto è la necessità di un cambiamento sostanziale rispetto alla tradizionale visione, cara alla filosofia e all’esistenzialismo, della condizione umana. Si avverte l’esigenza di produrre nuovi ritratti del soggetto tardo-moderno, dei suoi bisogni di felicità e realizzazione. Le tecnologie rappresentano una potenziale fonte di capitale sociale: un moltiplicatore di relazioni e di opportunità di gratificazione individuale attraverso la comunicazione. è quanto esprime il concetto di tecnologia del sé, in grado di esaltare l’aspetto dell’individualità e dell’individualismo.
Facendo ricorso a una metafora, è possibile affermare che muta la pelle dei media: in altre parole, il modo in cui vengono organizzati i rapporti degli uomini con l’ambiente. Il che significa anche che gli individui che non appartengono al “continente tecnologia”, a causa di condizionamenti sociali, difficoltà cognitive o per ragioni anagrafiche, in qualche modo si allontanano dal centro della scena, finendo sospinti alla periferia dell’impero delle tecnologie. è quanto ci ricorda l’ormai ricca letteratura sulle nuove “disuguaglianze digitali”: un concetto, quest’ultimo, di per sé più ricco e variegato di quello tradizionale di digital divide.
La definizione di condizione tecnologica invita, dunque, a un profondo ripensamento della socializzazione, della formazione, del divertimento, e di come tutte queste pratiche vengono drasticamente ridisegnate dalla nuova alba tecnologica. Chiedersi cosa c’è di nuovo in comunicazione significa, pertanto, tener conto di un insieme di fattori che disegnano una nuova mappa culturale, alcuni dei quali sono sotto i nostri occhi, a patto che si sappiano leggere in profondità i significati culturali e comunicativi nei comportamenti degli uomini contemporanei.
Società della conoscenza è la formula a cui si ispirano alcune delle più sistematiche interpretazioni del tempo in cui viviamo: una definizione che spinge a riconoscere l’exploit della conoscenza, intesa quale risorsa collettivamente diffusa, come una delle conseguenze − per quanto poco vistose − dell’attuale condizione tecnologica. Se in passato la conoscenza era considerata un prodotto d’élite, oggi a un numero crescente di esseri umani, e soprattutto di giovani, è data la possibilità di farne un’arma di valorizzazione della propria vita, da cui si ottiene non solo professionalità ma benessere.
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è il clamoroso cambio di paradigma nelle scienze della comunicazione, considerata l’insufficienza delle teorie della manipolazione e dell’alienazione comunicativa, che vedono la società vittima del dispotismo dei media e incapace di reagire al loro “massaggio”. Se osserviamo gli effetti sociali della comunicazione moderna, possiamo invece affermare che sono più evidenti i segnali di un aumento di potere, competenza, capacità di scelta e sovranità individuale da parte degli attori sociali.
Un punto di svolta rispetto al passato è, non a caso, l’innalzamento qualitativo del comportamento comunicativo degli italiani. Come tutti i fenomeni nuovi, non è facilmente leggibile all’interno di un paradigma unificante, ma solo entro una dimensione in grado di cogliere gli aspetti di contraddizione e discontinuità rispetto al passato, di fronte a un passaggio d’epoca per il quale mancano ancora nuove categorie interpretative. Le evidenze del nostro tempo dimostrano in modo indiscutibile la crescita di fenomeni di autonomia e competenza da parte dei pubblici che siamo ormai abituati a chiamare “tribù”: un termine che viene da un lessico pre-moderno, utilizzato per comprendere le radicali differenze espressive della contemporaneità.
L’aumento di qualità comporta una crisi del generalismo. I media di massa, che hanno un impatto omogeneo sulle persone, sono ormai avviati verso un onesto declino che li allontana progressivamente dal centro della scena comunicativa. Per la TV si tratta di un cambiamento epocale: il mezzo televisivo, che resta il più espressivo per comprendere il carattere degli italiani e la loro dimensione iper-comunicativa, ha creato le condizioni per l’aumento di qualità nella propria offerta, lavorando sulla stessa profezia che lo condanna alla decadenza. Soprattutto da parte dei più giovani, assistiamo al tramonto del generalismo inteso come disimpegno, che vede la TV − dal punto di vista qualitativo della capacità di offrire risposte ai bisogni simbolici degli individui – avviarsi a una rapida obsolescenza.
Altro aspetto da non sottovalutare è rappresentato dall’aumento di relazioni fra media vecchi e nuovi. Se nella fase di avvento delle nuove tecnologie sembravano prevalere forme di discontinuità − linguistiche, espressive, generazionali − rispetto alle vecchie, il modo in cui è avvenuta la compenetrazione fra generalismo e nuovi media porta invece alla luce gli aspetti di continuità rispetto ai contenuti, e questo semplicemente perché gli uomini tendono a portare con sé il loro codice culturale, le loro abitudini. Vecchi e nuovi media convergono, quindi, entro una piattaforma espressiva sostanzialmente condivisa, che sancisce definitivamente la fine dell’euforia per i tempi di avvento della rete Internet e per quanti avevano immaginato una radicale sostituzione dei “fondali culturali” della vita quotidiana.
Non è vero che Internet corre veloce e che è il motore del cambiamento, destinato a spazzar via i vecchi media e, in particolare, la TV. Una delle ipotesi avanzate in passato era che la Rete fosse rivoluzionaria dal punto di vista delle chance sociali, configurandosi come dispositivo dispensatore di risorse e liberalità a tutti gli altri segmenti della comunicazione. Ma ciò non è accaduto, anche per colpa del sistema politico e delle imprese del settore. Queste ultime, in particolare, hanno capito per ultime il valore della tecnologia come motore di cambiamento e non sono riuscite a costruire una valida alternativa alla forza del duopolio e, prima ancora, alla cultura del monopolismo.
Un fenomeno che preesiste rispetto alla crisi del generalismo è rappresentato dalla stanchezza dei suoi contenuti. A questo proposito, è sufficiente osservare la fortuna dei reality nel nostro paese, unitamente all’indebolimento dell’informazione e alla scarsa capacità di restituire al pubblico contenuti socialmente rilevanti. I giovani sono in fuga dal generalismo perché questo non offre risposte alla soggettività giovanile. è probabilmente da quasi un decennio che la televisione non sembra offrire nulla di nuovo (l’ultima vera novità è rappresentata dal “Grande Fratello”), mentre la creatività e le culture giovanili corrono veloci verso altre direzioni.
All’interno di un simile scenario, un elemento su cui puntare l’attenzione è la nascita del terzo polo televisivo. Qualcuno ricorderà le operazioni dei tanti che, puntando su un’offerta ancora rigorosamente televisiva, miravano a infilarsi tra i due grandi colossi dell’etere e a infrangere il duopolio. Questo non è stato possibile fino all’arrivo sul mercato di un soggetto chiamato Sky, il cui impatto è, da ogni punto di vista, assai più “customizzato”, proponendosi come una grande tastiera di offerta.
Come spesso accade, la fortuna di un medium è decretata non tanto dai numeri, quanto dalla capacità di operare rimandi multimediali e “cross-mediali”, nella valorizzazione di quella dimensione meta-comunicativa che decreta il successo di alcune avventure. Sky è stato un fenomeno che ha costruito una discreta reputazione nelle recensioni degli addetti ai lavori, vantando un pubblico sempre più competitivo, giovane, colto e in posizione di leadership negli acquisti, ovvero fattori decisivi per la pubblicità. La forza delle percentuali giovanili si conferma, del resto, per l’intero pulviscolo di “nuove televisioni” (tematiche, satellitari eccetera), provando con chiarezza il crollo del generalismo.
I casi citati sono sorretti da percentuali robuste, che rendono conto di fenomeni comunicativi oramai conclamati. Meno visibile − soprattutto perché non esiste la possibilità di trovare una forma di misurazione equivalente a quella disponibile per il generalismo − è il fenomeno delle forme di attivismo culturale “di qualità”. Se in passato pochissimi leggevano i libri, il fatto che il tempo moderno sia quello della crisi della lettura è un falso clamoroso: il problema della lettura nel nostro paese c’è sempre stato, anche quando non erano ancora arrivati i media elettronici o tanto meno quelli digitali; tuttavia, se si osserva il livello di penetrazione della lettura, ci si accorge che quella dei libri è rimasta sostanzialmente stabile nel tempo.
Se la diffusione della lettura non migliora, e questo è un fenomeno inquietante, non dipende dalla competizione di altri media, quanto piuttosto dall’incapacità della scuola e degli adulti di instillare nei giovani il piacere e il gusto del testo. Affermare che i giovani non leggono non è vero né in assoluto, né rispetto al fatto che essi hanno oggi di fronte una pluralità di alternative del tempo libero. Non a caso non solo la lettura di libri, ma anche il settore artistico-culturale e dello spettacolo dal vivo sono da molti anni in recupero, segnalando un interessante trend positivo.
Un ulteriore nodo interpretativo da segnalare è che nella società il cambiamento non si vede in modo così evidente come nel settore della comunicazione. Se in passato la comunicazione spingeva alla modernizzazione dei comportamenti e dei valori, oggi diventa più difficile ravvisare una sua diretta capacità d’influenza sui cambiamenti sociali, e questo vale in parte anche per i giovani. Osservando le culture giovanili, esse appaiono innovative dal punto di vista della comunicazione, confermando nelle nuove generazioni il driver del cambiamento; poi, però, nelle condotte sociali, negli stili di vita e persino nell’orizzonte della fiducia per il futuro, sembra che lo stacco rispetto alle generazioni adulte si accorci, come se fra la comunicazione e la vita non ci fosse più continuità.
Si tratta di un fenomeno che esprime le contraddizioni del nostro tempo: tendiamo anzitutto a proteggerci dai cambiamenti perché sono uno stress e un impedimento per il soggetto, che si trova di fronte a situazioni non familiari e costretto a misurarsi con scenari a cui non è preparato. Anche in un ambiente iper-tecnologico, la reazione dell’uomo resta quella di trincerarsi dietro il già visto, per poi più lentamente accettare i cambiamenti e tradurli nel linguaggio dell’immaginario e della comunicazione: cioè in nuove cosmologie, costruzioni di mondi narrativi, archetipi di natura simbolica e “virtuale”.
Solo dopo un lungo “dosaggio” simbolico, gli uomini tendono a cambiare anche l’azione. D’altronde, il cambiamento non dominato dalla capacità simbolica degli attori sociali è ciò che chiamiamo “crisi”; e, non a caso probabilmente, il tema della recessione è oggi così al centro del dibattito pubblico e politico.