Nella problematica biopolitica, la biologia, e in particolare, lo studio dei meccanismi immunologici, si coniuga con la politica in ragione di una analogica assimilazione del corpo individuale e del corpo sociale.
di Gian Piero Jacobelli
Il terribile “spettacolo” delle centinaia di corpi seminudi, ammanettati e accatastati in locali di fortuna – o meglio di sfortuna – nella Turchia del golpe e contro-golpe, si iscrive in una lunga sequenza di “spettacoli” altrettanto terribili che hanno costellato una lotta politica sempre più “terroristica”.
A fronte di questa deriva disumanizzante, il punto di vista biopolitico sembra il più idoneo a misurarsi con una contemporaneità in cui alla logica dei valori va sostituendosi la logica di una vita ridotta alle dinamiche elementari della offesa e della difesa.
La biopolitica, dove la biologia, e in particolare, lo studio dei meccanismi immunologici, si coniuga con la politica in ragione di una analogica assimilazione del corpo individuale e del corpo sociale, nasce dalle riflessioni sulla “differenza” antropologica di alcuni importanti filosofi francesi della seconda metà del Novecento, soprattutto di Michel Foucault, sulla violenza esplicita e implicita del potere, e di Jacques Derrida, sul “logocentrismo” e la democrazia.
In particolare, Derrida, chiarisce come non si possa separare la reazione immunitaria, che «protegge l’indennità del corpo producendo degli anticorpi contro gli antigeni estranei», dal processo di autoimmunizzazione, che «consiste nel proteggersi dalla propria autoprotezione distruggendo le proprie difese immunitarie». Da tale considerazione deduce, con specifico riferimento agli Stati Uniti e alla tragedia dell’11 settembre, una “autoimmunità costitutiva” della democrazia, che per difendersi, attacca il proprio sistema di diritti, finendo per assimilare le stesse minacce che la minacciano.
Questa apparentemente radicale contraddizione sta suscitando una tra le più significative riflessioni scientifiche e filosofiche di questi anni, intesa rimodulare i meccanismi immunitari in ordine più alle esigenze della vita che a quelle della morte.
Abbiamo già avuto modo di richiamare in proposito le considerazioni di Roberto Esposito, filosofo italiano “di riferimento”, il quale al rapporto tra immunitas e communitas, tra contrapposizione e confluenza, ha dedicato alcuni saggi fondamentali, a partire da Immunitas (Einaudi 2002), che già nel sottotitolo, Protezione e negazione della vita, dichiara il suo programma di “decostruzione”: «Se la dialettica immunitaria implica sempre l’incorporamento di un negativo, l’evento dell’autoimmunità ne costituisce insieme la conferma e la radicalizzazione: lo scioglimento del negativo da ogni funzione positiva e il suo raddoppiamento distruttivo su di sé». Ma, dopo avere sottolineato la contraddizione, Esposito si chiede se «questa lettura distruttiva – ed autodistruttiva – del sistema immunitario è l’unica possibile» o se può esistere «un angolo di visuale a partire dal quale si apre una prospettiva interpretativa radicalmente diversa».
Esposito ricorda i lavori di Frank Burnet, di Donna Haraway, di Polly Matzinger, di Anne Marie Molin, i quali progressivamente sostituiscono alla rappresentazione del sistema immunitario come un “campo di battaglia” quella di un campo di relazioni complesse tra “specificità condivise”.
Quindi si sofferma sul lavoro di Alfred Tauber, secondo il quale «il mantenimento dell’integrità organica è solo una funzione derivata e secondaria del sistema immunitario rispetto a quella, principale, di definire l’identità del soggetto» inserito in «una interazione competitiva e dinamica con l’ambiente».
Lo stesso Esposito ha proseguito la sua riflessione in un altro saggio, Bios. Biopolitica e filosofia (Einaudi 2004), in cui si sofferma sulle diverse radici ideologiche della biopolitica, in un contrasto tra la vita e la morte che cela un profondo contrasto tra la vita e la vita.
Il dibattito, questa volta non più sul versante filosofico, ma su quello specificamente scientifico, si è recentemente corredato di ulteriori apporti da cui emerge la ipotesi di un possibile ruolo rigenerativo del sistema immunitario, distinto dal suo compito di difensore da fattori antigeni.
Una ricerca pubblicata sulla rivista “Science”, il 15 aprile 2016, Developing a pro-regenerative biomaterial scaffold microenvironment requires T helper 2 cells, condotta da ricercatori guidati da Jennifer Ellisseff, direttrice del Translational Tissue Egineering Center (TTEC) della John Hopkins University di Baltimore, ha avanzato questa ipotesi sulla base di concrete prove di laboratorio.
L’articolo, di cui abbiamo dato notizia qualche settimana fa, dimostra come la manipolazione dei processi immunitari, messa a punto nella progettazione di biomateriali, possa diventare la base dello sviluppo di future terapie capaci di supportare in maniera efficace l’equilibrio immunologico nei tessuti, stimolandone la riparazione.
In questa sede ci interessa sottolineare due aspetti particolari della rivoluzionaria ricerca.
In primo luogo, la importanza della rimozione delle barriere epistemologiche tra biologia dello sviluppo, immunologia, scienze dei biomateriali, medicina, biologia molecolare e ingegneria biomedica.
In secondo luogo, in una prospettiva più filosofica, la convinzione che il sistema immunitario risulti depositario di una “memoria del sé”, in cui confluiscono sia la esperienza del proprio, sia quella del diverso. La efficacia di tale sistematica interazione, conclude Esposito, «non è misurata dalla capacità di protezione rispetto a un agente estraneo, ma dalla complessità della risposta che esso sollecita». Ogni elemento differenziale assorbito dall’esterno, infatti, «non fa che allargare ed arricchire la gamma delle sue potenzialità interne».
Non soltanto per fare fronte al diverso, ma per consolidare e, quando necessario, ricostituire il proprio.