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    Biocarburanti: come natura crea, ma molto più in fretta

    Imparare a replicare in poche ore un processo che la natura ha compiuto in milioni di anni.

    di Luca Longo

    In tutto il mondo prosegue la ricerca di carburanti alternativi sotto la spinta dell’impoverimento delle fonti non rinnovabili di energia e delle problematiche ambientali connesse con lo sfruttamento dei combustibili fossili.

    E’ opinione condivisa che una delle fonti più promettenti sia quella dei biocarburanti ottenuti dalla frazione umida organica dei rifiuti solidi urbani, dai residui dell’industria alimentare e dai fanghi di depurazione prodotti da impianti di trattamento delle acque.

    Questi, a differenza di altri carburanti alternativi, presenterebbero alcuni decisivi vantaggi: prima di tutto vengono già raccolti e concentrati attraverso gli esistenti sistemi di raccolta differenziata dei rifiuti. Inoltre, il loro sfruttamento permettere di ridurre le problematiche ambientali connesse allo smaltimento e al successivo trattamento di biomasse di scarto. Un altro vantaggio è dato dal fatto che possono essere trattati e distribuiti con le infrastrutture esistenti. Infine, possono essere utilizzati in impianti e mezzi di trasporto già ottimizzati per l’impiego di combustibili fossili tradizionali.

    Su Technology Review si è già parlato delle tecnologie per la produzione di vettori energetici rinnovabili dai rifiuti sviluppate dal Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara. Qui nel 2011 è stato identificato un processo di termoliquefazione dei rifiuti che è stato integrato con la raffinazione del bio-olio prodotto per ottenere biocarburanti e con la purificazione della fase acquosa residua grazie alla fermentazione con microorganismi. A Novara, Eni sta ottimizzando i parametri di processo in un impianto pilota dove la frazione organica dei rifiuti solidi urbani viene trasformata in olio combustibile o in biocarburanti per autotrazione.

    La reazione chiave dell’intero processo è la termoliquefazione idrotermale, dove la biomassa viene trattata termicamente a 240-310°C alla pressione di 40-100 bar per 1-2 ore.
    Negli impianti pilota di Novara si sta replicando il processo naturale che – nell’arco di decine di milioni di anni – ha trasformato le grandi foreste del Mesozoico in petrolio e gas.

    Nel processo naturale, la materia organica sviluppatasi principalmente nel Triassico, Giurassico e Cretaceo, si degrada disgregandosi con un meccanismo che è fondamentalmente l’inverso della fotosintesi. Le catene polimeriche dei grandi biopolimeri costituenti le proteine ed i carboidrati si scindono in blocchi di peso molecolare inferiore e possono combinarsi insieme per formare nuovi polimeri detti geopolimeri: i precursori del cherogene. Quando la materia organica è depositata contemporaneamente al materiale geologico, la successiva sedimentazione e la progressiva sepoltura fornisce condizioni anaerobiche, mentre il sovraccarico provoca l’aumento della pressione e della temperatura. Quando i geopolimeri sono sottoposti a pressioni geotermiche sufficientemente elevate per tempi sufficientemente lunghi (misurabili su scala geologica), cominciano a subire una serie di peculiari cambiamenti che li possono portare a diventare cherogene.

    Il cherogene è una complessa miscela di materiale organico, piuttosto che una specifica sostanza; per questo non gli si può attribuire una precisa formula chimica. Le trasformazioni che subisce includono la perdita di idrogeno, ossigeno, azoto e zolfo, e questo porta alla perdita di altri gruppi funzionali. Un’ulteriore isomerizzazione e aromatizzazione avviene col crescere della profondità di seppellimento e, quindi, della pressione. L’aromatizzazione, poi, consente un ordinato impilamento molecolare in lamine, e questo a sua volta aumenta la densità molecolare. Infine, il cherogene labile degrada per formare gli idrocarburi pesanti (i petroli), il cherogene refrattario degrada per formare gli idrocarburi leggeri (il gas naturale), il cherogene inerte forma la grafite.

    Risulta evidente che comprendere i principali meccanismi di reazione di questi processi darebbe una spinta decisiva agli studi che tentano di riprodurre industrialmente in poche ore i tempi geologici dei corrispondenti processi naturali.

    Un forte contributo alla modellazione delle reazioni di trasformazione della biomassa in bio-olio è stato dato da un approccio misto modellistico e sperimentale recentemente pubblicato sulla rivista specializzata Energy and Fuels.

    In questa ricerca, glucosio e cellulosa sono stati individuati come composti modello rappresentativi della fase solida costituente la biomassa iniziale e sono stati sottoposti a termoliquefazione idrotermale allo scopo di individuare i principali meccanismi di reazione che sono coinvolti nel processo.

    Le fasi ottenute (fase gas, bio-olio, fase acquosa, e residui solidi) sono state completamente caratterizzate impiegando una combinazione di tecniche analitiche come l’analisi elementare, la gascromatografia abbinata alla spettrometria di massa, la risonanza magnetica nucleare e tecniche combinate di microscopia elettronica. Una vasta gamma di reazioni (disidratazione, decarbossilazione, retro-aldolica, aromatizzazione, condensazione, ossidazione e riduzione) sono state proposte come coinvolte nella formazione dei diversi composti individuati nelle quattro fasi. Da questi dati è stato proposto un meccanismo di degradazione completo.

    I principali prodotti identificati in entrambi i bio-oli (da glucosio e da cellulosa) sono derivati del furfurale, che reagendo ulteriormente portano a diversi composti fenolici e alifatici. Sono stati trovati anche oligomeri derivanti dalla condensazione di derivati del ​​furfurale. La loro ulteriore polimerizzazione comporta la formazione di un residuo solido la cui caratterizzazione ha confermato la presenza di reticoli polifuranici insieme a domini di tipo grafitico. Infine, il glucosio e cellulosa hanno mostrato un comportamento simile dal punto di vista delle rese di prodotto e della composizione di fase, suggerendo che il grado di polimerizzazione della biomassa di partenza non abbia un’influenza rilevante.

    Questa metodica di ricerca ha permesso di individuare i fattori più rappresentativi di un processo che la natura ha portato a termine in milioni di anni e che ora l’umanità deve imparare a compiere in poche ore con l’obiettivo di eliminare rifiuti inquinanti su ampia scala estraendo e rendendo utilizzabile l’energia in essi immagazzinata.

    (sa)

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