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    Bill Mitchell se ne è andato.

    di Alessandro Ovi

    Bill Mitchell è stato Dean della School of Architecture and Planning del MIT e quasi da sempre professore al Media Lab. Un grande della architettura moderna, è stato famoso non per aver costruito edifici, ma per averli pensati come elementi di uno spazio nuovo, ancora in via di evoluzione. Lo spazio digitale, virtuale, fatto di insediamenti e comunità senza frontiere, allo stesso tempo villaggi e megalopoli, dove emerge sempre più forte la prevalenza dei bits e del software sulla materializzazione fisica delle forme. Uno spazio, diceva Bill, dove è possibile progettare ed edificare in modo appropriato, solo ricorrendo alla competenza di architetti consapevoli dell’importanza dei nuovi luoghi della città dei bits.

    Ma per me Bill è sempre stato soprattutto un amico che aveva la pazienza di spiegare, con le sue parole semplici e il suo inconfondibile accento australiano, cose molto difficili da comprendere, eppure segni evidenti di una visione quasi profetica. Ricordo con quale semplicità mi diceva, quasi venti anni fa: «La tastiera del PC è il mio bar», e mi raccontava come la mattina entrava nel mondo dei suoi amici, delle informazioni, dei pettegolezzi semplicemente mettendosi

    in Rete. Allora non c’erano Google, Face Book, Myspace, Twitter, eppure Bill aveva già visto tutto in termini di architettura urbana. Aveva capito che l’«agorà elettronica spostava, ridefiniva radicalmente le nostre nozioni di luogo, di incontro, di comunità, le nostre consuetudini di vita urbana.

    Ridendo, mi diceva: «Il mio nome è wjm@mit.edu, che è allo stesso tempo il mio indirizzo». A me veniva da sorridere, ma oggi, tutte le volte che la mattina accendo il mio Mac, mi rendo conto che aveva ragione lui. «Mi piace andare al bar per un cappuccino, perché quelli virtuali non sono un gran che», aggiungeva Bill, «ma quando ci vado, ho già visto i giornali del mondo, ho già avuto notizie della serata degli amici in California e del pomeriggio di quelli in Asia».

    Tutto questo oggi pare ovvio, ma vi assicuro che venti anni fa non lo era e sentirne parlare «come se fosse tutto vero», ed era vero, faceva una certa impressione. Come faceva impressione, meno di un anno fa, prima che la malattia facesse calare su di lui il silenzio, sentire Bill raccontare dei sistemi di trasporto urbano intelligenti: sistemi fatti di «ruote verdi» delle biciclette e di auto piccole, che si ripiegano per occupare meno spazio di sosta e ricaricano le batterie sotto le tettoie ricoperte di celle solari dei parcheggi.

    Di tutte queste cose Bill, al Media Lab, aveva costruito prototipi che mostrava orgoglioso e, allo stesso tempo, attento a qualunque suggerimento. Pochi mesi fa ci aveva mandato un articolo, subito pubblicato, perché pensava che Bologna, Firenze, Torino, solo per citarne alcune, fossero città interessate al trasporto intelligente. Magari, tra altri venti anni, scopriremo che, anche su questo, Bill aveva visto lontano.

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