Utopia stravagante e inquietante, perché proiettata all’interno del nostro mondo invece che all’esterno, quella di Atlantropa, proposta da un architetto tedesco alla fine degli anni Venti, associa scenari tecnologici e scenari politici di cui già conosciamo l’esito nefasto, anche trascurandone le oggi inaccettabili alterazioni ecologiche.
di Gian Piero Jacobelli
Nonostante la tanto propugnata o vituperata globalizzazione, il mondo si sta dividendo: Gli Stati Uniti sembrano arroccarsi dietro le acque profonde dell’Oceano Atlantico, la Gran Bretagna corre ciecamente verso il baratro della Brexit. Ma il resto del mondo non è da meno in questo autentico cupio dissolvi: il desiderio di stare separati che prevale su quello di stare insieme.
Forse aveva ragione Samuel P. Huntington nel preconizzare, a metà degli anni Novanta, un mondo sempre più discorde e conflittuale, anche se le motivazioni, culturali e religiose, possono apparire almeno in parte diverse da quelle odierne, in prevalenza politiche ed economiche.
Certo è che dal 1950 a oggi il numero di barriere, immateriali e materiali, è imprevedibilmente cresciuto. A metà del ventesimo secolo i “muri” stimati nel mondo erano meno di 5. Dal 1989, anno in cui viene abbattuto il muro di Berlino, questi “muri” si aggiravano intorno a 15. Venticinque più tardi il loro numero si è triplicato, in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre. Ci sono “muri” tra Arabia Saudita e Yemen, tra Bulgaria e Turchia, tra Spagna e Marocco, tra Cipro greca e Cipro turca, tra Corea del nord e Corea del sud, tra India e Bangladesh, tra Irlanda cattolica e Irlanda protestante, tra Israele e Palestina, tra Zimbabwe e Botswana, tra Stati Uniti e Messico, per ricordarne solo alcuni.
Proprio in quanto la storia contemporanea – un ossimoro che la dice lunga sulle distorsioni ottiche in gioco – appare più “divisiva”, sorprende la rievocazione di un incredibile e rivoluzionario progetto di unificazione tra il continente africano e quello europeo, proposto nel 1927 dal visionario architetto tedesco Herman Sörgel, il quale, tanto inconsapevolmente quanto irresponsabilmente, si rendeva interprete delle rinascenti tentazioni imperialiste tedesche, dalla Repubblica di Weimar al nazismo.
Il progetto, escludendola dal proprio strano e sviante appellativo, “Atlantropa”, sembrava mettere fuori gioco proprio l’Africa, quasi che, invece della protagonista maggiormente coinvolta al punto di vista geografico ed economico, si trattasse di una appendice che l’Europa intendeva riunificare per riaffacciarsi sull’Oceano Atlantico con maggiore forza e autonomia.
Atlantropa è tornata di attualità, quanto meno editoriale, grazie a un dettagliato, ma agile lavoro di ricostruzione storica e cronachistica compiuto da Osvaldo Guerrieri, narratore e critico teatrale, il quale ha recentemente pubblicato per Neri Pozza un saggio interessante e divertente, intitolato La diga sull’oceano e sottotitolato La folle avventura di Atlantropa, tanto per accrescerne la obliquità dello sguardo sui presupposti e i retroscena.
Diciamo subito che quanto scrive Guerrieri è tutto vero, anche se talvolta appare incredibile: uno scenario quasi onirico, che non trova giustificazione operativa neppure nelle tanto minuziose quanto pretenziose cartografie diffuse a piene mani negli anni successivi alla sua presentazione.
Quando l’architetto Sörgel cominciò a concepire Atlantropa, il Vecchio Continente era precipitato in una apparentemente irrimediabile catastrofe, una di quelle condizioni prolifiche di tensioni e di scenari utopistici. E una utopia, quella della presunta “rigenerazione nella pace”, voleva essere appunto Atlantropa, anche se, vista con la sensibilità di oggi, sembra piuttosto un incubo che un sogno a occhi aperti.
Secondo Sörgel, “sarebbe stato sufficiente forzare l’assetto naturale del Mediterraneo, prosciugarlo di quasi tutta la sua acqua e trasformare le superfici emerse in una terra colonizzabile e coltivabile, che avrebbe finalmente unito la gracile Europa all’opulenta Africa”.
Ma, come ogni utopia eccessiva ed eversiva, anche Atlantropa nasconde più di quanto rivela: forse un più o meno intenzionale, ma evidente rigurgito colonialistico nei confronti di un continente in cui si cominciavano ad avvertire i minacciosi scricchiolii di un imperialismo esercitato con ipocrisia e con cinismo; forse il riflesso dei nefasti scontri nazionalistici che si preparavano in Europa.
In effetti, Sörgel almeno per qualche tempo venne indotto a sperare nella cinica accoglienza di Hitler, il quale tuttavia, si dimostrò più interessato a espandersi vero Oriente, verso l’Unione Sovietica, con i pozzi di petrolio e le distese del grano ucraino.
In questo senso il racconto di Guerrieri utilizza i dati tecnici del progetto, dalle dighe di Gibilterra alla fusione del Lago Ciad con il fiume Congo, dalle dighe sui Dardanelli a quelle tra la Sicilia e la Tunisia, come la falsariga di un altro racconto che disegna un orizzonte politico e culturale in cui eutopia e distopia convergono sino a confondersi, tra emigrazioni forzate, campi di concentramento, accordi compromettenti e, infine, i lampi e i fragori della guerra più terribile della storia, non soltanto occidentale.
Il racconto si proietta anche nel dopoguerra, dove non manca neppure la benedizione, non si sa quanto voluta e meditata, di Léopold Senghor, ideologo e vate della négritudeoltre che, per venti anni, presidente del Senegal. Ma si sa, quandoquidem dormitat Homerus. Evidentemente a volte il fastidio del dire di no risulta più forte di quello del dire di si.
Sörgel morì il giorno di Natale del 1952 a causa di un investimento automobilistico che qualche giornale definì “omicidio premeditato”. Altrettanto silenziosa e riservata fu la sparizione del suo grandioso, ma folle progetto. Ricorda Guerrieri che “il progetto Atlatropa sopravvisse al suo autore fino al 1960, quando fu dichiarato ‘un progetto superato’ e l’Istituto Atlantropa venne chiuso per sempre”. Verrebbe da dire: Sic transit gloria mundi.
Tuttavia ricorda Guerrieri che “nella liquidazione, qualcuno ebbe il buon senso di non disperdere o distruggere i materiali di quella sconvolgente visione geopolitica. Negli anni successivi alla chiusura dell’istituto, l’immenso Archivio Atlatropa trovò adeguata sistemazione nel Deutsches Museum di Monaco”.
Come volevasi dimostrare, ogni monumento, per quanto eclatante, prima o dopo finisce in un polveroso documento.
(gv)