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    Anidride carbonica e voli interstellari

    Il primo passo per l’esplorazione del Cosmo.

    di Luca Longo

    Eliminare l’anidride carbonica dall’aria: non solo per fermare il cambiamento climatico ma per portare a casa la pelle. Questo è il problema che ha tormentato i progettisti di astronavi fino dall’inizio dell’era spaziale. 

    I costruttori di razzi con equipaggio umano resero conto fin dall’inizio che non bastava fornire a cosmonauti e astronauti un flusso costante di ossigeno; all’interno delle navicelle era anche necessario rimuovere l’anidride carbonica prodotta dall’equipaggio. Questo è stato uno dei tanti problemi che i progettisti si trovarono ad affrontare per la prima volta. Infatti, anche nei sommergibili di allora, entrambe le questioni venivano semplicemente risolte issando dei tubi – gli snorkel – sopra la superficie del mare per pompare dentro l’aria fresca e spingere fuori l’aria viziata: una soluzione certamente non utilizzabile nello spazio. 

    L’ossigeno rappresenta circa il 21% in volume dell’aria che respiriamo, ma l’organismo umano riesce a sopravvivere bene anche con concentrazioni fino al 15-17%. Al di sotto di questa soglia cominciano a verificarsi stati confusionali e diminuisce la capacità di compiere sforzi fisici.  

    Invece, l’anidride carbonica rappresenta solo lo 0,04% (400 parti per milione) dei gas presenti in atmosfera. Ma mentre non ci accorgiamo se la concentrazione di ossigeno cala anche di qualche punto percentuale, appena aumenta di poco la CO2 presente nell’aria che inspiriamo, immediatamente il nostro organismo reagisce aumentando la frequenza della respirazione. Alcune persone cominciano a sentire i primi sintomi (irritabilità e confusione) attorno allo 0,5% in volume, mentre tutti avvertono un forte stordimento quando la concentrazione di CO2 in aria sale all’1%. 

    Per questo, oltre a disporre di bombole di ossigeno per rimpiazzare quello consumato dagli astronauti, tutte le navette spaziali vengono dotate di sistemi per la cattura e l’eliminazione dell’anidride carbonica: gli scrubbers. Ciascuno di questi deve poter eliminare dall’atmosfera della navetta la CO2 emessa da ciascun componente dell’equipaggio: circa un chilogrammo a testa ogni 24 ore. 

    Durante i programmi Mercury, Gemini, Apollo e Shuttle, la NASA ha impiegato scrubbers chimici. L’aria della cabina veniva pompata dentro canestri porosi pieni di cristallini di idrossido di litio (LiOH). La CO2 reagiva formando carbonato di litio ed acqua e l’aria ripulita veniva arricchita di ossigeno prelevato da bombole sotto pressione e immessa nuovamente in cabina. Il problema era che questi filtri dovevano essere periodicamente sostituiti quando l’idrossido di litio si era interamente convertito in carbonato. 

    Il sistema non era tanto pratico e ha creato guai durante la missione Apollo 13, quando gli astronauti (rifugiati nel modulo di allunaggio a causa dell’avaria della capsula principale provocata dall’esplosione delle celle a combustibile nel modulo di servizio) si trovarono a dover adattare agli alloggiamenti rotondi realizzati dalla Grumman per il modulo lunare i contenitori quadrati sviluppati da North American Aviation per il modulo di comando. 

    I sovietici raggiunsero tutti i loro primati spaziali grazie a un sistema differente da questo. Già nello Sputnik 2 di Laika e nella Vostok 1 di Gagarin l’ossigeno era immagazzinato non come gas sotto pressione ma allo stato solido come superossido di potassio (KO2). L’aria viziata, povera di ossigeno e contenente l’anidride carbonica e l’umidità emanate dall’equipaggio, veniva inviata nel contenitore del KO2 provocando una reazione esotermica che catturava l’acqua liberando ossigeno e idrossido di potassio (KOH). L’ossigeno rimpiazzava quello respirato dai cosmonauti mentre il KOH reagiva con la CO2 formando carbonato di potassio. In questo modo, si eliminavano l’anidride carbonica e l’acqua prodotte dalla respirazione, si mantenevano caldi gli strumenti e si rigenerava l’ossigeno necessario. Serviva energia elettrica solo per la pompa, c’erano pochissime parti in movimento che potevano rompersi e non c’erano gas sotto pressione. 

    Il sistema funzionava bene e con ingombri e pesi così contenuti che già la prima Vostok 1 avrebbe permesso a Gagarin di respirare normalmente per 12 giorni, il tempo necessario per un rientro balistico in atmosfera nel caso in cui i razzi per l’abbandono dell’orbita non si fossero accesi.  

    Il dipartimento OKB-124 – che aveva progettato questo scrubber multifunzione insieme ai tecnici della marina sovietica – lo applicò successivamente alle Voskhod, alle Soyuz e anche ai sottomarini, che grazie a questa invenzione ed al motore nucleare poterono così rimanere in immersione per mesi interi. 

    Il problema di come costruire scrubbers efficienti si è ripresentato quando vennero lanciate le prime stazioni spaziali permanenti. Non è possibile immaginare di equipaggiare ciascuna con un sacco di canestri “usa e getta” contenenti KO2 oppure LiOH. Per questo sono stati abbandonati gli scrubbers chimici impiegati nelle navicelle per sviluppare sistemi ad adsorbimento.  

    Questi hanno all’interno un solido poroso molto affine all’anidride carbonica. L’aria viziata vi viene pompata sopra e l’anidride carbonica rimane appiccicata. Quando questo scotch molecolare è saturo di CO2, basta chiudere le valvole di collegamento con la cabina, aprire quelle verso l’esterno per fare sì che la CO2 lo abbandoni e si disperda nel vuoto spaziale. Il materiale è così pronto per un nuovo ciclo di adsorbimento. Per estrarre l’acqua emessa con la respirazione dell’equipaggio si usa lo stesso sistema. 

    Prima sullo Skylab – la stazione spaziale sviluppata dagli Stati Uniti – e poi nella sezione americana della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sono stati installati scrubbers basati su cristalli di biossido di silicio e di alluminio chiamati zeoliti. Si tratta di setacci molecolari con fori di dimensioni precise realizzati su misura per avere la massima affinità possibile proprio per molecole di una certa dimensione. In particolare, gli americani usano le Zeolite 13x (perfetta per assorbire acqua) in combinazione con la Zeolite 5A (ottimizzata per assorbire anidride carbonica). 

    Due di questi sistemi – chiamati Carbon Dioxide Removal Assembly (CDRA) - sono presenti sia nel Node 3 che nel laboratorio Tranquillity nella sezione americana. Ciascuna coppia di scrubbers lavora in tandem: mentre uno dei due sta adsorbendo H2O e CO2 dall’interno della stazione, l’altro è esposto al vuoto esterno e si sta liberando di quello che ha assorbito nel ciclo precedente. Il sistema è piuttosto complesso e – se usato con continuità – richiede manutenzioni periodiche perché le zeoliti, in forma di palline, tendono a venire soffiate via dai letti di adsorbimento e a danneggiare le turbine. Inoltre, la polvere di zeoliti tende ad accumularsi nei condotti ed a causare cortocircuiti. 

    Il sistema CDRA è così in grado di mantenere un equipaggio di 4 persone più alcune cavie di laboratorio con una respirazione complessiva pari a 1,25 esseri umani. 

    I russi hanno adottato un sistema differente – chiamato Vozdukh e installato nel Modulo di Servizio del Segmento Orbitale Russo – che adsorbe H2O e CO2 grazie alle proprietà basiche di tre differenti letti di ammine. La tecnologia – più semplice e senza parti in movimento escluse le valvole – deriva dall’esperienza fatta dai sovietici sulle sei stazioni spaziali Salyut e poi sulla MIR. L’ultima versione, installata a bordo della ISS, è in grado di sostenere indefinitamente un equipaggio di 6 persone rimuovendo 3000 litri di anidride carbonica al giorno.  

    Il sistema complessivo sulla ISS è così ridondante: Vozdukh rappresenta il sistema primario, mentre CDRA interviene quando Vozdukh è in manutenzione. Se tutti i sistemi dovessero andare contemporaneamente in avaria, sulle Soyuz sempre collegate alla ISS si trovano scrubbers chimici del vecchio tipo, ma sempre in grado di sostenere ciascuno un equipaggio di tre persone per 15 giorni. Dopo l’esperienza con Apollo 13, proprio per non lasciare nulla al caso, sugli Shuttle che hanno raggiunto la ISS fino al 2011 erano anche disponibili degli adattatori in grado di raccordare e fare funzionare gli scrubbers americani con i canestri russi. 

    Un altro passo da gigante che gli esploratori del cosmo dovranno affrontare, sarà quello di creare stazioni spaziali o colonie permanenti – cominciando dalla Luna e da Marte – in cui i sistemi di purificazione dovranno mantenere un habitat vivibile per un tempo indefinito. 

    Sulla Luna, priva di atmosfera, sarebbe possibile utilizzare gli scrubbers a due tempi sviluppati sulla ISS, ma su Marte il problema si complica perché l’atmosfera marziana è costituita quasi interamente da CO2, un letto adsorbente esposto all’atmosfera marziana non si ripristinerebbe ma – al contrario – verrebbe completamente avvelenato dalla sovrappressione di anidride carbonica. 

    Per questo a bordo del rover Perseverance – lanciato il 30 luglio 2020 e che dovrebbe arrivare sul pianeta rosso il 18 febbraio 2021 con la missione MARS 2020 – il MIT e l’Istituto Niels Bohr hanno installato il Mars Oxygen In-Situ Resource Utilization Experiment (MOXIE). Questo impiantino sperimentale dovrebbe dimostrare la possibilità di convertire – grazie all’energia fornita dal rover – la CO2 atmosferica marziana in monossido di carbonio e ossigeno con un elettrolizzatore a stato solido simile a quelli che convertono l’acqua in idrogeno ed ossigeno. In questo modo – sempre avendo a disposizione una fonte di energia – sarebbe possibile ottenere ossigeno direttamente sulla superficie di Marte anziché portarselo dietro in bombole. 

    Un processo che invece è già stato testato sulla ISS è il processo Sabatier. Questo trasforma l’umidità emanata dall’equipaggio in idrogeno e ossigeno grazie a un elettrolizzatore. Poi l’ossigeno può essere respirato dall’equipaggio o diventare comburente nei sistemi di propulsione. L’idrogeno, invece, viene combinato con l’anidride carbonica prodotta sempre dall’equipaggio per ottenere metano e acqua con un processo catalitico a base di nickel (un catalizzatore a km zero: è presente a sufficienza nelle rocce marziane). Il metano può poi essere mescolato con l’ossigeno nel sistema di propulsione. La stechiometria ci dice che rimane anche una piccola percentuale di ossigeno in più utilizzabile per il sostentamento dell’equipaggio. 

    Tutte queste tecnologie possono funzionare durante le fasi di costruzione della colonia, ma quando questa sarà a regime e i coloni dovranno imparare a cavarsela da soli per un tempo indefinito senza rifornimenti dalla Terra, probabilmente la miglior tecnologia di rigenerazione dell’aria sarà costituita da sistemi biologici. Questi ultimi – una volta avviati – avranno il vantaggio di non richiedere una profonda manutenzione grazie alla capacità di moltiplicazione ed autoriparazione degli stessi organismi biologici. Ne riparleremo presto. 

    Già oggi possiamo sognare ad occhi aperti colonie spaziali dotate di enormi serre piene di erbe, alberi o alghe, realizzate non solo su pianeti e satelliti ma anche a bordo delle gigantesche astronavi destinate all’ “esplorazione di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, per arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima.” 

    (lo)

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