La gravissima crisi sanitaria in cui ci troviamo e che ci costringe a non uscire da casa, sta non solo aumentando i rischi individuali, ma sta anche alterando i regimi della convivenza, che nei decenni precedenti si erano basati sulla moltiplicazione delle occasioni di incontro, reale e virtuale.
di Gian Piero Jacobelli 21-03-20
Da qualche settimana il nostro notiziario online, che riflette e interpreta quello della Casa Madre statunitense, non fa che pubblicare note e riflessioni sulla epidemia del Coronavirus. Gli argomenti riguardano la situazione della epidemia nelle varie parti del mondo, i diversi tentativi di contenimento, lo stato della ricerca farmacologica. Ma riguardano anche i nuovi scenari che questa imprevista, anche se non imprevedibile epidemia può comportare.
Si tratta di scenari che il direttore della edizione statunitense di MIT Technology Review, Gideon Lichfield, ha sintetizzato in una affermazione tanto incisiva quanto preoccupante, che si può ancora leggere sulla nostra Home Page: «Cambierà radicalmente quasi tutto ciò che facciamo».
Cambieranno il modo di lavorare, il modo di scambiare beni materiali e immateriali, il modo di educare, il modo di curare; in poche parole, il modo di vivere insieme. Tanti cambiamenti che riguarderanno molti aspetti della nostra vita e che comporteranno modalità comportamentali e operative sostanzialmente diverse dalle attuali, secondo il comune vincolo del “distanziamento sociale”.
Senza trascurare la drammaticità degli eventi che preludono a questi scenari di cambiamento radicale, vorremmo riflettere brevemente su questo concetto di “distanziamento”, proprio per sottolineare la radicalità di quanto sta accadendo, dal momento che tutta la civiltà contemporanea sembrava al contrario lasciarsi guidare da una pervasiva inclinazione per la “prossimità”. Una prossimità promossa e garantita dalla “sacra alleanza” tra mobilità e comunicazione, tra i mezzi di trasporto e le grandi reti mediatiche, sulla cui rapidissima espansione, dall’Ottocento nel primo caso, dal Novecento nel secondo caso, si sono fondati i sempre più rapidi processi di globalizzazione.
Questa sacra alleanza sembra ora spezzarsi e venire meno, a causa del Covid-19 che da un lato ha reso metropolitane, autobus, treni e aerei, in una parola i mezzi di trasporto collettivo, potenzialmente contagiosi, proprio per la inevitabile prossimità a cui costringono gli utenti, e dall’altro lato ha reso i mezzi di comuncazione delle vere e proprie ancore di salvezza per chiunque si trovi isolato nelle proprie abitazioni in ragione delle normative con cui si cerca di fare fronte alla crisi sanitaria.
Si tratta di una situazione assolutamente inedita, quanto meno nell’ultimo secolo, quando i mezzi di comunicazione hanno per lo più assecondato i mezzi di trasporto per alimentare una mobilità di carattere economico e politico, oltre che turistico e ludico.
Basterà ricordare a questo proposito gli interessanti studi del sociologo della comunicazione Davide Borrelli, il quale una ventina di anni fa ha ripetutamente segnalato la importanza della diffusione del telefono negli ingenti flussi migratori del “secolo breve”: «Lo sviluppo del sistema telefonico – soprattutto nel settore dei collegamenti interurbani – ha nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta accompagnato e in un certo senso addirittura sdrammatizzato i processi di migrazione che in quel momento stavano separando molti individui dai loro gruppi familiari».
Il telefono diventava, in altre parole, una sorta di conchiglia animata, un modo di portarsi la casa appresso restando in virtuale contatto con le persone care, certamente molto più efficiente delle opportunità epistolari.
Al contrario, gli odierni mezzi di comunicazione, assai più sofisticati e più funzionali del telefono, rischiano di venire utilizzati – se, come sostiene Lichfield, la crisi sanitaria proseguirà tra intermittenze ancora non ipotizzabili – per assecondare e alimentare non tanto la mobilità, quanto la stanzialità, più o meno coatta.
E per fortuna che esistono, diremmo noi! Senza però evitare di porci alcuni interrogativi esistenziali, ancora senza risposta. In particolare, quali saranno le conseguenze di questa progressiva separazione tra reale e virtuale, tra l’incontro faccia a faccia e l’incontro ipermediato? In effetti, si è sinora ritenuto che proprio nella integrazione di reale e virtuale risieda la grande innovazione della cultura contemporanea, sul piano sia relazionale, sia formativo.
Troppo presto per avanzare ipotesi in assenza di un quadro di riferimento ancora confuso e precario. Ma non troppo presto per non temere che, dopo tante “guerriglie” mediatiche, questa volta l’imperiosa mediazione dello schermo possa diventare davvero pressante e problematica.
(gv)