Come risolvere i problemi di un mondo in crisi, turbato dalle preoccupazioni sull’immigrazione, dalla crescita lenta nei paesi sviluppati, dalla minaccia dell’automazione del lavoro e dagli impatti dei cambiamenti climatici.
di David Rotman
Good Economics for Hard Times, il nuovo libro di Esther Duflo e Abhijit Banerjee, affronta i temi centrali di un’economica che non va. La loro analisi è accompagnata da un avvertimento: poche persone credono agli economisti. Duflo e Banerjee scrivono che, secondo un recente sondaggio, solo circa il 25 per cento delle persone ha dichiarato di “fidarsi” degli economisti, una percentuale poco al di sopra del livello riservato ai politici.
Questa sfiducia è particolarmente angosciante per la coppia di economisti, che sono orgogliosi di creare politiche di sviluppo basate sui dati reali. La diffidenza generale nei confronti delle analisi economiche, essi scrivono, ci sta portando a disastrosi livelli di disuguaglianza, al collasso ambientale e a disastri politici globali “con proposte poco più che banali per affrontarli”.
Si prenda ad esempio il panico sull’immigrazione che domina la scena politica negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa, con i timori che gli immigrati stiano distruggendo le opportunità di lavoro per i nativi. I fatti non supportano queste paure. La frazione di migranti internazionali nella popolazione mondiale è rimasta all’incirca la stessa del 1960 e del 1990.
Duflo e Banerjee suggeriscono che molte delle preoccupazioni sono sostenute da una nozione semplicistica di domanda e offerta: l’idea che i lavoratori andranno in massa a occupare i posti con i salari più alti e quindi provocheranno una diminuzione generalizzata di questi salari.
Questa idea è sbagliata, scrivono i due economisti. Per una miriade di ragioni, alle persone non piace muoversi, anche se ne possono trarre un vantaggio economico.
La prospettiva di Duflo e Banerjee è originale e legata ad anni di lavoro in alcuni dei paesi più poveri del mondo. Tuttavia, le dinamiche che hanno individuato spiegano anche molte delle problematiche che preoccupano l’Europa e gli Stati Uniti.
Per esempio, essi dicono, l’immigrazione, in particolare dei lavoratori poco qualificati,ha generalmente ricadute positive, aumentando i salari e rafforzando l’economia generale. L’eccezione interessante è l’afflusso di immigrati altamente qualificati, il gruppo recentemente favorito dai politici. Si scopre, infatti, che si innesca una competizione con i locali per i lavori ben pagati.
Per alcune delle stesse ragioni per cui c’è meno migrazione da paese a paese di quanto si creda (rischio, incertezza finanziaria, radici familiari), gli americani stanno diventando meno propensi a muoversi. Tra il marzo del 2018 e del 2019, solo l’1,5 per cento degli americani si è trasferito da uno stato all’altro. Nel 2000 la percentuale era del 2,3 per cento e nel 1990 arrivava al 3,3 per cento.
Questo è un problema perché i destini di diverse parti del paese stanno prendendo direzioni opposte. La maggior parte delle industrie ad alta tecnologia, come i prodotti farmaceutici e i microchip, che rappresentano il 6 per cento della produzione economica degli Stati Uniti, stanno crescendo solo in alcune città.
Si è scritto molto su questo aspetto in passato, ma un nuovo rapporto pubblicato questa settimana dalla Information Technology and Innovation Foundation e dalla Brookings Institution quantifica ulteriormente questo crescente divario e offre un piano coraggioso per risolverlo.
Secondo il rapporto, cinque città – Boston, San Francisco, San Jose, Seattle e San Diego – coprono la maggior parte della crescita nei settori ad alta tecnologia e ricerca e sviluppo avanzata. Visto che “le sole forze di mercato non risolveranno il problema”, continua il rapporto, “il governo dovrebbe designare da 8 a 10 centri di crescita regionali in tutto il paese”. Tra gli incentivi proposti si parla di 700 milioni di dollari all’anno in finanziamenti federali di ricerca e sviluppo per 10 anni.
Immagine: Wikipedia