Il ricorso alle lezioni online nella scuola e nell’università, per sopperire alle necessità di distanziamento connesse con la pandemia, ha finito per evidenziare i limiti, ma anche le potenzialità inesplorate sia della formazione in presenza sia di quella a distanza, sollecitando un confronto meno pregiudiziale tra sistemi formativi differenti, ma necessariamente dialoganti.
di Gian Piero Jacobelli
Ci siamo tante volte interrogati, anche su queste pagine (digitali!), e non cessiamo di interrogarci sugli esiti e le conseguenze della pandemia, non soltanto sul versante sanitario, ma anche su quello degli “usi e costumi”, e persino delle visioni del mondo. Non si tratta di un interrogativo a cui sia facile rispondere, se non altro perché nasconde la ingenua speranza gattopardesca che nulla debba cambiare proprio perché tutto è cambiato. Ma non è così.
Per quanto sarà possibile recuperare alcune modalità di convivenza che la pandemia ci ha costretti a rimuovere, indietro non si potrà tornare, soprattutto nell’ambito di quelle modalità comunicative “a distanza” a cui proprio la pandemia ha conferito nuovi e imprescindibili obiettivi, di riparazione, ma anche di promozione. Si tratta delle piattaforme espressive offerte dalle reti digitali e dalle loro implementazioni informative e, soprattutto, formative.
Su questo ultimo aspetto vorremmo brevemente soffermarci, dal momento che la ripresa dell’insegnamento “in presenza” nelle scuole di ogni ordine e grado resta una indicazione programmatica, ma non esclusiva. Sia perché il ritorno alle modalità online costituisce ancora l’unica risposta possibile alla emergenza sporadica di prevedibili focolai pandemici. Sia perché talvolta è stato possibile fare di necessità virtù, integrando le due modalità, in presenza e a distanza, nella configurazione di un più attuale e rispondente sistema di scambio, di confronto e di elaborazione culturale, in cui quanto meno alcuni processi di apprendimento e di riflessione vengono resi più efficienti e più efficaci.
Non si parla soltanto di logistica formativa, bensì di una ancora latente, ma autentica rivoluzione per quanto concerne principi valoriali che si basano su una persistente e riduttiva visione “umanistica” del rapporto formativo, di carattere inevitabilmente autoritario e paradigmatico.
Dobbiamo ad Alberto Abruzzese, sociologo particolarmente sensibile alle trasformazioni che avvengono nel passaggio tra modernità e postmodernità e oltre, la considerazione, a nostro avviso fondamentale, che la dimensione comunicativa della rete si pone a integrazione di quella interpersonale faccia a faccia, mentre si pone in alternativa alla dimensione comunicativa dei cosiddetti mass media. Se la crescente popolarità di questi ultimi deriva da una più o meno consapevole banalizzazione dei convenzionali modelli, codici e linguaggi culturali, nella effervescenza delle reti si manifesta una coralità e una creatività che, alimentandosi alla infinita riserva dei luoghi comuni, tende però a configurarsi come una comunicazione “politicamente scorretta”. Vale a dire come qualcosa che si proietta al di là dei tradizionali vincoli espressivi e comunicativi di quell’“ordine del discorso” su cui Michel Foucault ha scritto pagine indimenticabili.
Rileva a questo proposito Abruzzese che «le culture emergenti nelle reti on line hanno dato valore alla parola reputazione in aperta alternativa al rumore dei media di massa, ai loro attori sociali, al calo di intensità, competenza e efficienza dei loro valori professionali, delle loro gerarchie, dei loro corporativismi». Ecco balzare in primo piano la nozione di “reputazione”, che una volta apparteneva alla cultura istituzionale, ai suoi esponenti e operatori, ai suoi luoghi deputati: la scuola, l’università, le accademie; mentre oggi torna in gioco affidandosi al confronto e alla dialettica tra le parti sociali. «La reputazione», scrive ancora Abruzzese, «è la qualità da acquisire al fine di rendere credibili gli attori delle reti e più ancora le reti stesse. Si tratta di una qualità che non è una dote, qualcosa cioè che “si ha in dote”, ovvero si è acquisita per mezzo di un capitale culturale di partenza e che da allora in poi garantisce credito. È invece un riconoscimento: il riconoscimento della propria comunità di appartenenza, anzi del proprio terreno di coltura, quale ne siano l’estensione e le finalità. A suo modo è una qualità conquistata sul campo, agendo in comune con chi la condivide e determina. Una investitura reciproca».
In questa prospettiva, che richiede una specifica ed esplicita assunzione di responsabilità da parte dei suoi sempre più numerosi protagonisti, torna di attualità il tanto dibattuto problema della università online, che qualche anno fa appariva ancora di competenza delle università tradizionali nel loro impegno di moltiplicazione e riqualificazione dell’offerta formativa. Oggi, invece, tende piuttosto a misurarsi sul ruolo assunto da istituzioni e organizzazioni specializzate, che si muovono in uno spazio articolato tra l’incontro da vicino e l’incontro da lontano: un “campus” senza specifici limiti territoriali e temporali.
Questa innovativa offerta formativa agli inizi non godeva, per così dire, di buona stampa, perché sospetta di motivazioni facilitanti e culturalmente compromettenti. Tuttavia, in forza anche della pressante pandemia, sta acquisendo una sempre più matura consapevolezza di metodo e di merito, rivalutandosi grazie a specifiche competenze tecniche e organizzative, non soltanto funzionali a particolari situazioni emergenziali, individuali o collettive.
Questa inedita moltiplicazione degli attori, pubblici e privati, che sta rivoluzionando l’orizzonte della formazione coniugando in maniera certamente più duttile e meno convenzionale le istanze culturali e quelle professionali, può venire valorizzata in una chiave decisamente reputazionale solo se alla innovazione dei mezzi corrisponderà una reale innovazione dei contenuti e dei metodi, che ancora stenta a vedere la luce. In effetti, le università di impianto ottocentesco hanno dovuto «ristrutturare la propria offerta formativa facendo ricorso a professionisti dell’impresa così da compensare il fatto di essere restata irrimediabilmente fuori del tempo e quindi di non disporre più dei contenuti adeguati a fare ricerca e formazione».
Ma il mondo cambia troppo rapidamente per accontentarsi della cooptazione burocratica di alcune nuove materie dentro il corpo immutato delle vecchie discipline accademiche, per cui l’università viene relegata al ruolo di trasmissione pura e semplice di nozioni utili prioritariamente al sistema economico-politico in cui opera. Piuttosto che arrendersi alle ingiunzioni utilitaristiche provenienti dalla filiera della produzione economica e sociale, il sistema formativo – in particolare quello universitario a cui si chiede, nel suo crescente processo di diversificazione istituzionale e strumentale, di “stare sul mercato” senza però “vendersi” – potrebbe quanto meno porre in questione la funzione di tapis roulant a cui sembrava fatalmente destinato prima che il mondo fosse costretto a riflettere seriamente sulle proprie intrinseche contraddizioni. E potrebbe impegnarsi a recuperare quella fondamentale funzione della “scala” che oltre trenta anni fa anni fa rappresentò il fulcro progettuale dell’allora nuovo Media Lab del Massachusetts Institute of Technology. Una scala ampia e comoda, con rampe e pianerottoli su cui, salendo e scendendo, le persone possono incontrarsi e comunicare con ogni mezzo possibile.
(gv)