Tassare le merci importate da produttori inquinanti di carbonio potrebbe costringere i paesi a emanare regole climatiche più aggressive. Ma è giusto per le nazioni più povere?
di James Temple
La scorsa settimana, i leader dell’Unione Europea hanno approvato il piano economico più aggressivo della storia contro i cambiamenti climatici.
Hanno attirato particolarmente l’attenzione i 600 miliardi di dollari dedicati alle misure verdi, suddivisi tra le voci di un imponente pacchetto per la ripresa economica e il bilancio europeo dei prossimi sette anni, dedicato al conseguimento dell’obiettivo del Green Deal europeo di rendere il continente “neutrale dal punto di vista climatico” entro la metà del secolo. Il nuovo accordo ha anche fissato i termini per l’attuazione di una politica potenzialmente controversa quanto efficace, mirata ad incentivare la riduzione delle emissioni ben oltre i confini dell’Europa.
L’accordo da $2 trilioni richiede, infatti, l’introduzione entro il 2023 di un “meccanismo di adeguamento delle frontiere del carbonio”, ovvero di una tassa imposta su beni d’importazione prodotti al costo di emissioni di gas a effetto serra superiori ai limiti consentiti europei. Questa tassa potrebbe essere applicata ad una varietà di industrie altamente inquinanti come l’industria del cemento, del vetro, dell’acciaio, dei fertilizzanti e dei combustibili fossili. “Negli ultimi 30 anni, abbiamo affrontato i negoziati sul clima sulla base di standard volontari e premi per i virtuosi”, spiega Nikos Tsafos, membro anziano del Center for Strategic and International Studies. “È la prima volta che introduciamo delle vere e proprie conseguenze contro chi viene meno all’impegno”.
La speranza è che la nuova tassa possa costringere anche le società al di fuori dell’UE, interessate a vendere i propri prodotti nel mercato unico, a prendere misure più aggressive contro le proprie emissioni, spiega David Victor, condirettore del Laboratory on International Law and Regulation presso la University of California, San Diego. I legislatori europei si aspettano inoltre la possibilità di sviluppare nuovi accordi commerciali bilaterali o trilaterali tra i principali paesi con l’impegno a rispettare set di regole climatiche simili, a ragione di una parità di condizioni nello scambio con le nazioni europee, afferma.
Victor sostiene che questo tipo di accordi vincolanti potrebbe portare a progressi climatici di gran lunga più significativi qi quelli ottenuti da trattati internazionali come l’accordo di Parigi, con obiettivi o regole tanto ampi da essere accettati da circa 200 nazioni. Nel caso l’UE riuscisse a coinvolgere Cina, India, Giappone o Stati Uniti in accordi commerciali basati su tali regole, raccoglierebbe in blocchi commerciali unificati i principali responsabili delle emissioni totali del mondo. La vastità stessa di questi mercati potrebbe incoraggiare altre nazioni a intensificare i propri sforzi sul clima. “Questo è esattamente il tipo di strategia che credo possa sbloccare l’impasse sul clima”, dichiara Victor.
L’idea sta emergendo anche altrove. In particolare, la piattaforma del Partito Democratico degli Stati Uniti richiede l’imposizione di una “penale sulle emissioni”, nessuno vuole chiamarla una tassa, su prodotti provenienti da paesi che non rispettano i propri impegni ai sensi dell’accordo di Parigi. Insieme, Stati Uniti e UE sono responsabili del 20% delle emissioni mondiali di gas serra.
Secondo Tsafos, però, è tutt’altro che chiaro se una tassa sulle emissioni alle frontiere possa trasformare l’UE in un’isola dalle emissioni ridotte, isolata dalle sue stesse politiche o “il centro di una rete in continua espansione di stati a emissioni ridotte di gas serra“. È possibile che si formi piuttosto una via di mezzo: un mercato globale frammentato tra una manciata di nazioni a basse emissioni di carbonio e un gruppo di nazioni ad alte emissioni che continuano semplicemente a commerciare tra loro.
Il risultato finale dipenderà da come l’UE elaborerà l’imposta e da dove stabilisce la tassa, ovviamente presupponendo che riesca ad attuare con successo questa politica. Il dettaglio dei negoziati non partirà che a fine del prossimo anno e richiederà diversi livelli di approvazione. L’impresa dovrà sicuramente anche anche confrontarsi con sfide legali, tecniche e di giustizia sociale.
Per esempio, è probabile che un certo numero di nazioni extra-UE contesti la proposta presso l’Organizzazione mondiale del commercio. Sarà inoltre necessario uno sforzo enorme per identificare metodi di valutazione e verifica affidabili del carbon footprint dei vari prodotti di una varietà di aziende, in diverse nazioni. E non manca chi dichiara ingiusto il fatto che proprio l’Europa, responsabile di quasi un quarto delle emissioni storiche accumulate a livello globale, si arroghi il diritto di penalizzare e imporre la propria volontà alle nazioni povere che hanno inquinato molto meno nel tempo, caratterizzate da emissioni pro capite notevolmente inferiori ed appena avviate sulla strada dello sviluppo economico.
“Sebbene nominalmente ragionevoli, glia adattamenti unilaterali alla frontiera rappresentano semplicemente un’ultima forma di imperialismo economico”, ha affermato Arvind Ravikumar, responsabile del laboratorio di sviluppo di energia sostenibile presso la Harrisburg University of Science and Technology, in una revisione dell’iniziativa condotta dal MIT Technology Review. “La decisione di imporre tali tasse ai paesi in via di sviluppo riflette la pratica coloniale del trasferimento di ricchezza dal mondo in via di sviluppo a quello sviluppato”, ha aggiunto.
Altri sostengono le iniziative UE potenzialmente atte a compensare le disuguaglianze con vari mezzi, come ritardare o ridurre l’imposta per alcune nazioni, calcolarla sulla base delle emissioni storiche o compensare i costi con altri investimenti progettati per aiutare le nazioni povere ad abbandonare l’utilizzo di combustibili fossili. Ravikumar concorda sul fatto esistono metodi per rendere più giusti gli adeguamenti delle emissioni alla frontiera, ma sostiene che non potranno mai essere veramente “equi o giusti” se imposti unilateralmente dall’UE. “Penso che queste discussioni sulla progettazione equa delle politiche ignorino convenientemente la questione fondamentale della giustizia”, ha scritto su Twitter.
Il problema è che le azioni aggressive sul clima da parte di una sola nazione, o anche di una grande regione come l’UE, non possono mai influenzare le emissioni globali da sole. I cambiamenti climatici sono un problema globale che non possiamo davvero affrontare fino a quando essenzialmente tutte le nazioni non inizieranno a prendere misure serie. In un modo o nell’altro, spiega Victor, i paesi devono trovare un modo per diffondere pratiche e politiche volte a ridurre le emissioni globali sulla scala e al ritmo richiesti dal pericolo incombente.