Fan Wang, professoressa di scienze cerebrali e cognitive al MIT, si sta concentrando sui circuiti cerebrali che controllano la percezione del dolore e il suo lavoro potrebbe un giorno rendere superflua la somministrazione di oppiacei.
di Georgina Gustin
Fan Wang trascorre la maggior parte delle sue giornate lavorative all’interno di un laboratorio, supervisionando esperimenti, rivedendo grandi quantità di dati e gestendo un team di ricercatori. Il suo laboratorio nell’edificio 46 del MIT, in cui si è trasferita dopo essere entrata a far parte della facoltà a gennaio, è incontaminato e ordinato, un luogo sterile governato da rigore e numeri.
Ma Wang pensa di più in questi giorni alle dimensioni umane del suo lavoro. Dopo che lei e i suoi colleghi hanno pubblicato un articolo sulla soppressione del dolore su “Nature Neuroscience” l’anno scorso, un’ondata di persone, che vivono con un dolore inspiegabile, senza sollievo e implacabile, si è riversata nella sua vita. Hanno inviato e-mail, chiedendo il suo aiuto. Volevano essere rassicurati che ci fosse una spiegazione ragionevole della situazione in cui si trovavano.
Wang, ricercatrice presso il McGovern Institute for Brain Research e professoressa di scienze cerebrali e cognitive al MIT, ha trascorso gran parte della sua carriera a studiare la percezione sensoriale e ad approfondire i modi in cui il cervello interpreta il tatto e il dolore. Lei e il suo team stanno ora lavorando per comprendere nuovi centri di soppressione del dolore nel cervello con la speranza di trovare soluzioni che non richiedano oppioidi.
Se ci riusciranno, il loro lavoro potrebbe cambiare profondamente le terapie del dolore e rimodellare la vita di innumerevoli persone, prevenendo potenzialmente gli effetti a cascata della dipendenza che spesso accompagnano l’uso di oppioidi. “Voglio solo trovare un modo per alleviare il dolore”, dice Wangh. Ma le aree del cervello su cui si è concentrata, in cui risiedono i centri del dolore e del sonno e dell’anestesia, sono incredibilmente complesse e il compito che ha di fronte è monumentale
Un’ipotesi selvaggia
Autodefinitasi un “nerd della scienza”, Wang è cresciuta a Pechino. Ha frequentato la Columbia University, dove ha avuto come mentore il premio Nobel Richard Axel, e ha svolto la sua ricerca post-dottorato alla Stanford University con Marc Tessier-Lavigne. Nel 2003 è approdata alla Duke University, dove è diventata professore ordinario di neurobiologia presso la facoltà di medicina prima di arrivare al MIT.
Wang è sempre stata interessata alla percezione sensoriale e le sue prime ricerche si sono concentrate sul senso dell’olfatto, tracciando i neuroni sensoriali dalla cavità nasale al bulbo olfattivo, la parte del cervello responsabile dell’elaborazione della percezione degli odori. I ricercatori avevano solo una comprensione limitata della percezione del dolore, dice. Ciò rimane vero decenni dopo. “Sappiamo che ci sono terminazioni sensoriali nella pelle e nelle dita che fanno sentire la temperatura e la consistenza. Questa percezione viene creata nel cervello”, afferma Wang. “Volevo capirlo a livelli più alti, per avere un’idea precisa dello sviluppo del sistema”.
Wang è stata ispirata e incuriosita dal lavoro del medico americano Henry Beecher, che ha documentato casi di soldati della seconda guerra mondiale che hanno subito lesioni estreme, ma non hanno provato dolore quando sono stati portati dal campo di battaglia agli ospedali militari. “Avrebbero dovuto soffrire, ma non succedeva. Il loro cervello era passato a uno stato in cui non provavano dolore”, spiega Wang. Anche se i loro neuroni sensoriali erano rimasti intatti, dice, questi rilevatori di stimoli non registravano la percezione del dolore.
Era anche affascinata dalle segnalazioni di pazienti in anestesia generale, sottoposti a interventi chirurgici, che erano coscienti – alcuni ricordavano persino di averli sentiti parlare con il chirurgo – ma non provavano dolore. Cosa stava facendo il cervello in questi casi, si chiedeva, e come si poteva sfruttare questa capacità per attenuare il dolore?
Nei 175 anni trascorsi da quando il primo paziente è stato sottoposto con successo all’anestesia generale, i ricercatori non hanno individuato esattamente come funziona l’intero meccanismo. La teoria prevalente è che l’anestesia generale spenga il cervello, creando una perdita di coscienza. Ma gli esempi dei soldati e dei pazienti che sono rimasti consapevoli sotto anestesia hanno portato Wang a chiedersi se una parte del cervello anestetizzato stesse ancora, in effetti, lavorando per sopprimere il dolore.
“Ci possono essere regioni del cervello che sono, paradossalmente, attivate dall’anestetico”, dice Wang. “E, anche se l’ipotesi è azzardata, un meccanismo attivo si dovrebbe poter accendere e spegnere come un interruttore, rendendo possibile eliminare il dolore. Per cercare una tale regione, Wang e il suo team hanno anestetizzato i topi con quattro anestetici comuni e poi, utilizzando marcatori molecolari, hanno trovato gruppi di neuroni attivati dai composti in una parte dell’ipotalamo del cervello e nell’amigdala.
Poiché i neuroni ipotalamici esprimono un neuropeptide che in precedenza era stato collegato alla riduzione del dolore, Wang si è concentrata prima sul loro studio. Con sua sorpresa, ha scoperto che sembravano essere collegati non solo alla soppressione del dolore, ma anche alla perdita di coscienza vissuta in anestesia generale. Quando lei e il suo team hanno attivato i neuroni utilizzando una tecnica che aveva sperimentato alla Duke (chiamata “cattura di gruppi neurali attivati” o CANE, capturing activated neural ensembles), i topi sono entrati in un sonno lungo e profondo.
La scoperta che più anestetici attivano tutti una regione del cervello per promuovere uno stato simile al sonno ha fornito la prima chiara prova che ci sono meccanismi attivi coinvolti nell’anestesia. Poiché è noto che i pazienti con dolore cronico hanno problemi di sonno, questa regione potrebbe essere un potenziale bersaglio per risolvere questa forma di insonnia, afferma Wang.
Basandosi su questa ricerca, Wang e i suoi colleghi hanno rivolto la loro attenzione al gruppo di neuroni che avevano trovato nell’amigdala, anch’essi coinvolti dall’anestesia generale. Era possibile che potessero essere alla base della funzione di soppressione del dolore? Sembrava improbabile, perché l’amigdala è la parte del cervello più associata alla paura e alla risposta umana di lotta o fuga, innescata dalla prospettiva del dolore, e non era un’area precedentemente collegata all’anestesia e alla soppressione attiva del dolore.
Sorprendentemente, quando Wang e il suo team hanno usato l’optogenetica per attivare questi specifici neuroni dell’amigdala centrale, hanno scoperto che i topi sentivano pochissimo dolore. I topi che erano stati esposti a un agente infiammatorio o che avevano dolore ai nervi causato da un farmaco chemioterapico o dalla pressione del nervo hanno immediatamente smesso di strofinarsi il viso e di leccarsi le zampe, tipici comportamenti di cura di sé indotti dal dolore.
Al contrario, quando i ricercatori hanno disattivato questi neuroni, i topi hanno risposto al tocco normale, come accarezzare il pelo, come se fosse doloroso. Wang dice che quando il suo team ha ripreso in considerazione questi neuroni nel loro stato normale, ha trovato un’attività spontanea in corso, che secondo loro impedisce al cervello di essere eccessivamente sensibile al tocco normale.
I ricercatori si sono resi conto che questi neuroni dell’amigdala erano cellule inibitorie, che rallentano o arrestano l’attività di altri neuroni. E quando hanno tracciato le connessioni dei neuroni, hanno scoperto che non si collegavano alle regioni del cervello coinvolte nel rilevamento e nella discriminazione tra gli stimoli che potrebbero causare dolore, ma facevano riferimento alle regioni del cervello coinvolte nell’elaborazione delle emozioni negative e della sofferenza associate a stimoli dolorosi.
In altre parole, sembrava che quando i neuroni dell’amigdala venivano attivati, i topi potevano percepire gli stimoli che tipicamente causano dolore, ma non avvertivano il dolore stesso. Il modo in cui questi neuroni si sono collegati a molte regioni del cervello che elaborano le emozioni negative del dolore ha suggerito che le cellule dell’amigdala possano inibire tutte queste regioni. Questa è stata una scoperta del “Santo Graal” perché significava che c’era un singolo posto nel cervello che poteva, potenzialmente, spegnere il dolore. “Avevamo questa ipotesi folle e si è rivelata vera”, dice Wang, raggiante.
Un rilevatore di fumo impreciso
Quando “Nature Neuroscience” ha pubblicato la ricerca di Wang sull’amigdala l’anno scorso, l’attenzione dei media è stata costante. E quando le persone con dolore cronico – si stima che 50 milioni di americani convivano con esso – hanno letto che c’era un possibile “interruttore” nel profondo del cervello che poteva alleviare la loro sofferenza irrisolta, hanno contattato Wang, che ha risposto loro che la sua ricerca era solo sui topi in questa fase e che una terapia umana era distante ancora anni.
Quando Wang discute la sua ricerca, parla velocemente, muovendo le mani per accentuare le sue spiegazioni, come se il suo cervello corresse in avanti. Sente un’urgenza riguardo al suo lavoro. Ma per quanto sia entusiasta riguardo alle possibilità future, si dispera anche. Di recente ha appreso che una delle persone che l’hanno contattata, un uomo con una sindrome dolorosa complessa, che causava un dolore che non poteva essere alleviato nonostante tutti i suoi sforzi, si era tolto la vita.
“Tutto il suo corpo sentiva dolore. Niente l’ha sollevato”, dice Wang, con la voce rotta dall’emozione. “Questo è un modo terribile di vivere. E purtroppo sono così lontana dal trasformare la mia ricerca in terapia”. Un’altra persona di recente le ha chiesto: “Perché Dio ci fa sentire così tanto dolore?” lei ricorda. “Questa domanda mi ha reso profondamente triste, perché non avevo una risposta”.
Tuttavia, ha la speranza. La sua ricerca attuale mira a individuare i meccanismi del circuito neurale che controllano come le aspettative e i ricordi cambiano la nostra percezione del dolore. Sta anche esplorando la componente contestuale del dolore con l’idea di trattarlo come “un problema di percezione”. “Sono rimasta molto colpita dal trucco della mano di gomma”, in cui le persone sobbalzano quando una mano di gomma, dopo essere stata accarezzata allo stesso modo della loro mano reale, viene improvvisamente colpita con un martello o coltello. Questa reazione, pensa, suggerisce che la risposta al dolore del cervello in molti casi può avere ben poco a che fare con uno stimolo doloroso reale.
“Il sistema del dolore è come un rilevatore di fumo impreciso”, spiega. “A volte il nostro cervello interpreta qualcosa come fuoco, ma in realtà è solo un pezzo di pane tostato”. Lavorando sempre con i topi, Wang e il suo team hanno misurato le risposte degli animali a determinati ambienti per verificare se potevano essere addestrati ad attivare da soli l’interruttore di soppressione del dolore. Inizialmente hanno attivato le cellule centrali dell’amigdala per dare sollievo dal dolore ai topi quando erano in una scatola dipinta.
In una scatola di controllo, invece, i topi non hanno ricevuto nulla. Dopo alcune sessioni di addestramento, hanno testato le risposte dei topi a vari stimoli nelle due scatole senza attivare le cellule centrali dell’amigdala. È stato interessante notare che gli animali hanno mostrato una risposta al dolore molto inferiore quando sono stati collocati nella “scatola antidolorifica” rispetto a quando erano nella scatola di controllo.
Ciò ha dimostrato, afferma Wang, che un contesto associato al sollievo dal dolore potrebbe innescare l’interruttore che sopprime il dolore nell’amigdala. Alla fine, gli esseri umani potrebbero essere condizionati allo stesso modo, dice, senza la necessità di farmaci per attivare l’interruttore dell’amigdala. “Forse si può addestrare il cervello a guardare un’app quando le cellule dell’amigdala che sopprimono il dolore vengono attivate da farmaci o stimolazione cerebrale, così il cervello ricorda. Poi tutto quello che si deve fare è guardare di nuovo l’app e l’amigdala spegne il dolore”, dice. “Questo è il sogno. Questo è il futuro”.
In effetti, il cervello potrebbe alla fine essere in grado di modificare la sua percezione del dolore, per spegnere il dolore inspiegabile e cronico o semplicemente inutile. “Non abbiamo una nuova terapia da tanto tempo. L’ ibuprofene e gli altri farmaci sono ormai datati”, spiega Wang.
La ricercatrice è a capo di una nuova iniziativa che studia la dipendenza al McGovern Institute, perché crede che il suo lavoro sulla soppressione del dolore nel cervello potrebbe alla fine significare che i pazienti potrebbero fare a meno degli oppioidi. Il suo lavoro con questa iniziativa sulla dipendenza si concentra su come l’uso di droghe crea uno stato cerebrale di “desiderio della droga” che persiste anche dopo che la dipendenza fisica è stata trattata e alleviata. “Lo considero un profondo dolore mentale”, dice. “Il dolore è un’illusione generata dal cervello. Tutte le percezioni sono illusioni”, afferma Wang. “Ma solo perché è nella testa non significa che non sia reale. Tutto è nella testa”.
La scienza della dipendenza al Mc Govern Institute
Circa 130 persone muoiono ogni giorno negli Stati Uniti per overdose da oppiacei. Due delle principali cause di morte prevenibili sono il tabacco e l’alcol. Un bambino su cinque cresce in una casa affetta da dipendenza. Eppure gli scienziati non comprendono ancora la biologia alla base di questa malattia cerebrale cronica e complessa. Un team di oltre 20 neuroscienziati e ingegneri del McGovern Institute, guidato da Fan Wang, ha iniziato a lavorare su una nuova ricerca per determinare come la dipendenza colpisce il cervello e sviluppare strategie per prevederla, prevenirla e curarla.
Più del 50 per cento dei pazienti ha una recidiva entro sei mesi dal trattamento ospedaliero per dipendenza da alcol o droghe. Il laboratorio del professore di cervello e scienze cognitive John Gabrieli sta utilizzando l’imaging cerebrale e l’apprendimento automatico per concentrarsi sui predittori di ricaduta e abbinare i pazienti con interventi ottimali.
Polina Anikeeva, professoressa di scienza e ingegneria dei materiali, sta sviluppando strumenti che utilizzano campi luminosi e magnetici per attivare i neuroni nella regione della ricompensa del cervello. Controllando questi circuiti cerebrali nei topi, si può studiare il loro ruolo nel comportamento di ricerca della droga e cercare modi per ridurre le risposte legate alla dipendenza. Sta anche usando sonde a base di fibre che ha creato per individuare i biomarcatori elettrofisiologici e neurochimici della dipendenza.
La professoressa dell’Istituto e neuroscienziata Ann Graybiel sta esplorando i percorsi della dopamina legati alla dipendenza e alla formazione di abitudini a lungo termine. Sta anche studiando come le droghe che creano dipendenza dirottano questi percorsi per guidare il comportamento motorio e la formazione di abitudini. Osservando come questi percorsi differiscono nelle persone con dipendenze, spera di far luce sul motivo per cui alcune persone potrebbero essere più inclini alla dipendenza di altre.
Il professore di scienze cognitive Ed Boyden ha sviluppato una tecnologia di microscopia ad espansione che rende possibile visualizzare le connessioni microscopiche tra i neuroni e le posizioni delle biomolecole all’interno dei neuroni. Ora sta mappando i cambiamenti dei circuiti molecolari e neurali associati alla dipendenza e utilizzerà l’apprendimento automatico per identificare probabili bersagli per il trattamento.
Il professore di ingegneria biologica Alan Jasanoff, che ha sviluppato sensori MRI che monitorano l’attività neurale, ne sta ora utilizzando di nuovi che rilevano sostanze neurochimiche per studiare la comunicazione tra le regioni del cervello legate alla motivazione, alla ricompensa e alla dipendenza. Il suo obiettivo è capire meglio come la dipendenza cambia il modo in cui funziona il cervello.
(rp)
Immagine: Wang ha identificato circuiti neurali nell’amigdala centrale che sono collegati alla soppressione del dolore (di colore rosso, magenta e giallo).Per gentile concessione del Fan Wang Lab