Non sempre i nostri pensieri coincidono con la realtà e viceversa, ma questa sfasatura conoscitiva costituisce spesso la condizione della innovazione in campo scientifico e tecnologico, innescando quella funzione della serendipità che connette le antiche favole alle moderne concezioni di una conoscenza sempre aleatoria e mai definitiva.
di Gian Piero Jacobelli
Presentando nei giorni scorsi un libro assai intrigante, dedicato ai “demoni della scienza” (Jimena Canales, I demoni della scienza, Bollati Boringhieri) abbiamo chiamato in causa quel lato oscuro della scienza che consiste nella sua impossibilità di sapere tutto, anzi il tutto, perché conoscere significa essenzialmente ampliare il campo del noto, ampliando inevitabilmente anche il campo dell’ignoto.
Se non si può sapere tutto, neppure in linea di principio, ne consegue che non è possibile neppure tracciare un percorso lineare e “progressivo” della scienza. Perché, come insegnava Thomas Kuhn, proprio saturando il campo della “scienza normale” si aprono le porte a quella “scienza nuova” che nell’abito del vecchio paradigma non sarebbe stata neppure concepibile.
Insomma, la scienza procede, da un lato, confermando se stessa, e quindi, paradossalmente non scoprendo niente di nuovo, e dall’altro lato, contestando se stessa, per aprirsi a sconcertanti scenari di imprevedibilità.
Non sorprende dunque che Mat Honan, il nuovo direttore della edizione americana di “MIT Technology Review”, nel suo editoriale di esordio (pubblicato nell’ultimo fascicolo dello scorso anno), nel redigere un sommario, ma innovativo programma di lavoro, abbia rivolto la sua attenzione soprattutto a quegli aspetti della scienza e della tecnologia che risultano interessanti proprio per la loro “eccentricità”: «Faremo in modo che valga la pena di leggere quanto pubblichiamo. Cercheremo storie incredibili, al limite della impossibilità. Esporremo verità nascoste e ne chiederemo conto alle imprese e alle persone coinvolte. Ci impegneremo a capire i modi in cui la scienza e la tecnologia stanno rimodellando il nostro mondo».
“Storie incredibili al limite della impossibilità”, “verità nascoste”, l’attenzione rivolta più ai cambiamenti imprevedibili che a quelli prevedibili: tutte versioni alternative di un sapere che sembra procedere a tentoni, ma che proprio per le sue intrinseche incertezze e per i suoi sistematici “ripensamenti” riesce a crescere oltre le proprie stesse previsioni e aspettative.
Un ulteriore, rilevante apporto a questa sorta di “Critica della Ragione scientifica”, per parafrasare la celebre formula kantiana, lo abbiamo recentemente rinvenuto in un altro libro non a caso contemporaneo anche se non contestuale, per ambito di interesse e per stile argomentativo, al libro precedente.
Questo secondo libro, sino dal titolo, Serendipità, e soprattutto dal sottotitolo, L’inatteso nella scienza, si inquadra programmaticamente, ma in maniera del tutto originale, in una trasversale riflessione epistemologica, nel cui ambito la storia della scienza viene prospettata con riferimento al cosiddetto “paradigma indiziario”. Quel “paradigma”, vale a dire quel modello analitico e argomentativo che, dallo storico Carlo Ginzburg al semiologo Umberto Eco, per citare solo gli studiosi più noti e autorevoli, tende a prospettare il processo conoscitivo non in funzione di una verità da scoprire, ma di una verità da realizzare, nel senso di renderla “narrativamente reale” volta per volta.
Per altro, lo stesso autore del libro in questione (pubblicato da Raffaello Cortina alla fine dello scorso anno), Telmo Pievani, uno dei filosofi della scienza e degli studiosi italiani dell’evoluzione più stimolanti e reputati, suggerisce che la dialettica tra la ripetizione e la differenza, nei “riti di passaggio” della scoperta, ma anche della invenzione, non avviene come un salto nel vuoto, bensì come un “salto nel pieno”. Vale a dire, come un salto all’interno delle proprie consolidate opportunità conoscitive e operative, che serve a cambiare le carte in gioco, aprendosi per virtù combinatoria a risultati altrimenti imprevedibili e comunque innovativi.
La suggestiva indagine di Pievani, al tempo stesso lessicale e concettuale, prende le mosse dalla fatidica lettera che il letterato e collezionista Horace Walpole inviò nel 1754 all’amico diplomatico Horace Mann a proposito di una sua occasionale scoperta araldica in un ritratto di Bianca Capello attribuito a Vasari: «Questa scoperta, in verità, è quasi di quel genere che io chiamo Serendipity», con riferimento a una antica novella orientale dedicata ai viaggi e alle avventure dei principi di Serendippo, l’attuale Sri Lanka, ripresa da Cristoforo Armeno alla metà del Cinquecento e tradotta in inglese nel 1722.
Il concetto di serendipità venne ripreso negli anni Trenta del Novecento dal sociologo americano Robert K. Merton, il quale la riferì alla «scoperta per fortuna o sagacia di risultati ai quali non si era pensato». Come giustamente sottolinea Pievani, riemerge così «il contesto irrazionale e psicologico della scoperta», il suo più o meno elevato grado di accidentalità. Il che non esclude che quella “irrazionalità” richieda anche una non comune razionalità: «Winston Churchill diceva che gli uomini occasionalmente inciampano nella verità, ma gran parte di loro si rialza subito e si rimette a camminare come se nulla fosse».
Gli esempi si questa occasionale “trascuratezza” non mancano e Pievani ne raccoglie molti sia in positivo sia in negativo. Là dove le “profezie retrospettive”, che dimostrerebbero come nulla sia davvero cambiato, si confondono con le “profezie autoavverantisi”, che al contrario dimostrerebbero gattopardescamente come tutto possa cambiare purché nulla cambi, quanto meno per chi ha il potere di annunciare o denunciare il cambiamento.
Qui a nostro avviso emerge una suggestione particolarmente originale e interessante, del tutto congeniale al percorso intellettuale di Pievani in quanto studioso della evoluzione darwiniana e postdarwiniana. Nel contesto della serendipità, se è vero che si trova sempre qualcosa in qualche modo già esistente, è anche vero che quel qualcosa esiste altrove, celato nelle nebbie delle rimozioni precedenti: esiste “a minor ragione”, in attesa del momento di esistere “a maggior ragione”.
In questa prospettiva, Pievani conclude declinando con grande incisività la nozione di serendipità mediante quella di “exattamento”, a cui ha già dedicato ripetute e preziose riflessioni: «Il processo evolutivo fa di necessità virtù. La selezione naturale non riparte ogni volta da zero, bensì dal materiale a disposizione, con i suoi vincoli e la sua storia. Detto altrimenti: ciò che è funzionale adesso ha in realtà una gamma di effetti potenziali, molti dei quali oggi del tutto sconosciuti e imprevedibili, proprio come la scoperta serendipitosa».
«Così sembra funzionare», aggiunge Pievani, «anche la nostra mente alle prese con una realtà abbondante: cerca qualcosa, animata da una certa intenzione, e poi trova tutt’altro, come se l’indagine di una realtà eccedente garantisse al nostro percorso di ricerca, immerso com’è in un vasto ignoto, un potenziale latente di scoperte serendipitose impreviste».
Di questa realtà eccedente fanno aristotelicamente parte non solo le cose, ma anche le parole; non solo le parole, ma anche i concetti: quelli che, con riferimento ai giochi matematici, aleggiano nell’empireo della fantasia creativa, ma che prima o poi possono trovare utili applicazioni nel mondo reale.
Quei “sorrisi senza il gatto”, come li definiva il matematico e scrittore Lewis Carroll in Alice nel Paese delle Meraviglie, che assumono un ruolo innovativo nel processo della conoscenza perché fanno emergere realtà prima non considerate: “gatti con il sorriso”, realtà che da quel momento sembrano prescindere dalle operazioni mentali che le hanno più o meno consapevolmente generate. In attesa che il processo possa ricominciare.