Il progetto di Google di digitalizzare milioni di libri stampati significherà la scomparsa delle biblioteche o piuttosto la loro rinascita?
di Wade Roush
La biblioteca Bodleiana dell’Università di Oxford, in Inghilterra, è l’unico posto dove è possibile trovare una porta Ethernet che somiglia a un libro. Collocate all’interno delle antiche librerie che dominano l’ala più antica della biblioteca, risalente a oltre 400 anni fa, le porte di plastica color marrone condividono lo spazio degli scaffali con i registri scritti a mano dei manoscritti medievali dell’Università e altro materiale. Alcuni volumi sono tuttora incatenati agli scaffali, una novità introdotta nel XVII secolo per scoraggiare il prestito. Ma, grazie alle porte Ethernet e agli sforzi dell’Università di digitalizzare libri insostituibili, come i cataloghi – che spesso contengono l’unico indizio utile a localizzare un libro sconosciuto o un manoscritto, in qualche parte all’interno dell’immensa biblioteca − i frequentatori della Bodleiana non hanno neppure bisogno di prelevare i libri dagli scaffali. Si limitano semplicemente a collegare il proprio portatile, connettersi a Internet e consultare direttamente on line la pagina di loro interesse. Di fatto, chiunque abbia un programma per navigare nel Web può avere accesso ai cataloghi, un privilegio un tempo riservato ai quei fortunati che insegnavano o studiavano a Oxford.
La digitalizzazione dell’enorme quantità di libri delle biblioteche di tutto il mondo − un tentativo che risale ai primi anni 1990 nel Regno Unito, negli Stati Uniti e altrove − si è rivelato un processo lento, costoso e non redditizio. Lo scorso dicembre, però, i bibliotecari hanno ricevuto una piacevole sorpresa. Google, il gigante dei motori di ricerca, ha annunciato l’ambizioso progetto di estendere il proprio servizio Google Print attraverso la conversione dei contenuti delle migliaia di libri presenti nelle biblioteche in pagine Web consultabili da chiunque. Al momento dell’annuncio Google aveva già sottoscritto un contratto con cinque partner, incluse le biblioteche di Oxford, Harvard, Stanford, e l’Università del Michigan insieme con la New York Public Library. Ma sicuramente ne seguiranno altre.
La maggior parte dei bibliotecari e degli archivisti si sono dimostrati entusiasti all’annuncio, certi che l’evento passerà alla storia come il momento in cui la società ha finalmente preso coscienza dell’importanza di rendere universale il sapere. Brewster Kahle, fondatore di una biblioteca digitale no profit, nota come Internet Archive, definisce la mossa di Google “lungimirante… poichè legittima su vasta scala l’intero progetto di digitalizzazione“.
Ma alcuni di loro, incluso Kahle, sono convinti che le iniziative di Google e di altri simili costringeranno le biblioteche e i bibliotecari a rivedere alcune delle loro convinzioni, in primo luogo il proprio impegno a diffondere gratuitamente il sapere. Il fatto di consentire a una società a scopo di lucro, come Google, di mediare l’accesso ai libri delle biblioteche, potrebbe in realtà aprire prospettive del tutto diverse: o spalancare le porte a quella riserva di sapere a lungo tenuta nascosta o costituire un primo passo verso la privatizzazione del patrimonio letterario mondiale. “Se si ritiene che le biblioteche siano davvero intenzionate a dare libero accesso ai testi di grande valore, perché allora non ritenere buona l’idea di digitalizzarli in modo rapido?“, afferma Abby Smith, responsabile dei programmi per il Counsil on Library and Information Resources, a Washington, DC, un’organizzazione no profit che assiste le biblioteche nel processo di conversione digitale. “Alcuni bibliotecari, però, sono seriamente preoccupati circa le modalità di accesso e ancor di più dal fatto che una società privata prenda il controllo di materiali che le biblioteche si sono impegnate a raccogliere nel corso degli anni“.
Inoltre, sono preoccupati anche per quanto riguarda il settore dell’editoria. Gli editori e gli autori fanno affidamento su un rigido regolamento del copyright per tutelarsi dalla riproduzione pirata e dall’utilizzo illecito della loro proprietà intellettuale, quantomeno per recuperare quanto hanno investito. Le biblioteche che, al contrario, consentono a più lettori di consultare lo stesso libro, hanno sempre goduto di una sorta di esenzione dalla legge sul copyright. Ora però la digitalizzazione in massa dei libri delle biblioteche rischia di far diventare i loro contenuti accessibili – o facile preda della pirateria, dipende dai punti di vista − quanto quelli della musica digitale. Tutto ciò fa sì che le biblioteche si ritrovino direttamente coinvolte nello scontro fra i grandi colossi dell’informazione e chi invece vorrebbe che la cultura fosse gratuita, o quantomeno accessibile al prezzo più basso.
Qualunque cosa accada, la conversione di milioni e più libri in bit cambierà senz’altro le abitudini dei frequentatori di biblioteche. Che ne sarà dunque delle biblioteche? Una volta che il sapere, oggi intrappolato sulla pagina stampata, verrà trasferito sul Web dove sarà possibile recuperarlo da casa, dall’ufficio, dalla stanza del college, le biblioteche potrebbero ridursi a solitarie caverne abitate per lo più da cultori della conservazione. Cercare un libro in biblioteca potrebbe diventare anacronistico come usare un telefono a gettoni, recarsi presso un’agenzia di viaggi per prenotare un biglietto aereo o spedire per posta una lettera scritta a mano.
Sorprendentemente, comunque, i fautori della digitalizzazione delle biblioteche si aspettano esattamente l’opposto. Sostengono, infatti, che negli Stati Uniti gli utenti delle biblioteche stanno aumentando, nonostante l’avvento del Web, e che si stanno costruendo o ristrutturando biblioteche a un ritmo senza precedenti (la Biblioteca Centrale di Seattle progettata dall’architetto Rem Koolhaas, per esempio, è il nuovo gioiello del centro della città). Inoltre, prevedono che i cittadini del XXI secolo si recheranno in sempre maggior numero presso le biblioteche locali per usufruire gratuitamente dei loro terminali Internet, per interpellare gli specialisti nella consultazione, o per consultare le copie fisiche di libri protetti dal copyright (secondo il modello Google potranno essere consultabili sul web solo dei frammenti di questi libri, a meno che i loro autori o editori non decidano diversamente). Considerando, infine, che la gran quantità di nuovo materiale digitale accrescerà sempre più il lavoro di classificazione e catalogazione nonché l’esigenza di indirizzare i lettori ai testi giusti, i bibliotecari potrebbero diventare più impegnati che mai.
“La presunzione di ritenere che una volta digitalizzato il testo non ci sia nient’altro da fare mi infastidisce”, afferma Donald Waters, ex direttore della Digital Library Foundation e ora supervisore dei cospicui investimenti filantropici della Fondazione Andrew W. Mellon in progetti per migliorare la comunicazione scolastica. “C’è un’incredibile quantità di lavoro da fare e la digitalizzazione è solo un lavoro di superficie”.
Ma la digitalizzazione in sé, ovviamente, non è una sfida da poco. La rapida scansione delle pagine di fragili libri antichi, cercando di non danneggiarli, è un problema che non è ancora stato risolto, poiché pone la questione di come immagazzinare e preservare il loro contenuto una volta convertito nella forma digitale. L’iniziativa di Google ha inoltre amplificato un dibattito di vecchia data fra bibliotecari, autori, editori e informatici su come garantire il più ampio accesso possibile ai libri digitali, inclusi quelli ancora protetti dal copyright (che, negli Stati Uniti, significa tutto ciò che è stato pubblicato dopo il 1 gennaio 1923). I rischi sono alti, sia per Google sia per la comunità bibliotecaria, e le tecnologie e gli accordi commerciali che vengono stipulati oggi potrebbero determinare il modo in cui la gente farà uso delle biblioteche nei decenni a venire.
“L’industria possiede delle risorse da investire, che noi ora non abbiamo, né potremo mai avere”, spiega Gary Strong, bibliotecario universitario dell’Università della California, a Los Angeles, che si avvale di propri avanzati programmi di digitalizzazione. “L’industria si è rivolta alle biblioteche perché noi disponiamo di depositi sconfinati di informazioni. Pertanto siamo i partner naturali per questo progetto e ciascuno di noi contribuisce con le proprie conoscenze. Ma stiamo ridefinendo anche il progetto stesso. Ora che si stanno definendo nuovi canali d’accesso, come riuscire ad accertarsi che tutto queste informazioni saranno effettivamente utilizzabili?”
La breccia nelle mura
Anche per gli utenti autorizzati, l’accesso ai sette milioni di volumi della biblioteca Bodleriana è tutt’altro che immediato. Se si è uno studente di Oxford in cerca di un libro, si deve prima inviare una richiesta elettronica a un impiegato che si trova presso gli scaffali sotterranei della biblioteca (Prima del 2000 o giù di lì sarebbe stato necessario consegnare una cedola con una richiesta scritta a un bibliotecario che a sua volta l’avrebbe passata agli scaffali sotterranei attraverso una rete pneumatica risalente agli anni 1940). L’impiegato infine individua il libro in un labirinto di scaffali mobili (un’innovazione salva spazio concepita nel 1898 dal Primo Ministro britannico William Gladstone) e lo pone in un contenitore di plastica. Un ingegnoso sistema di nastri trasportatori e montacarichi, anche questo costruito negli anni 1940, riporta il contenitore in una delle sette sale di lettura, dove viene aperto e infine consegnato al richiedente.
L’intera procedura può richiedere dai 30 minuti fino a parecchie ore. Ma, una volta che si ha il libro, non si pensi di poterlo portare con sé nella propria stanza per un’ulteriore consultazione. La biblioteca Bodleiana è una sorta di deposito autorizzato di materiale non circolante, nel senso che può disporre di una copia gratuita per ogni libro pubblicato nel Regno Unito e nella Repubblica d’Irlanda e che custodisce gelosamente. Ogni anno la biblioteca prende in consegna decine di migliaia di libri, ma la leggenda narra che nessun libro è mai uscito fuori dalle sue mura.
Ma per consultare un libro digitale non c’è alcun bisogno di prenderlo in prestito. Diverse biblioteche di Oxford hanno già creato le immagini digitali di molti dei loro più grandi tesori: dai manoscritti latini miniati del IX secolo ai libri scolastici per bambini del XIX secolo. La maggior parte di queste immagini può essere consultata sul Web in alta risoluzione. L’unico inghippo è che gli studenti devono sapere a priori cosa stanno cercando, poiché solo una piccola parte delle pagine digitalizzate sono consultabili on line. A oggi la tecnologia dell’identificazione ottica dei caratteri (OCR) non è ancora in grado di riconoscere la scrittura dei manoscritti, pertanto per esporre il contenuto di questi libri nei moderni motori di ricerca occorre prima trascrivere i loro testi dentro file separati che andranno poi associati alle immagini originali. A Oxford un team di tre persone, in collaborazione con i bibliotecari dell’Università del Michigan e altre 70 università, sta operando in tal senso su una grande collezione di antichi libri inglesi ma, sinora, tutto il lavoro svolto ha reso consultabili on line solo i contenuti di 200 libri al mese. Con questo passo ci vorranno più di 400 anni per realizzare un milione di libri consultabili on-line.
Ed è qui che le risorse di Google faranno la differenza. Susan Wojcicki, direttore di prodotto presso il Campus Google, di Mountain View, in California, e supervisore del progetto Google Print dichiara seccamente : “Noi di Google siamo bravi a fare le cose in grande”.
Google ha già copiato e indicizzato qualcosa come 8 miliardi di pagine Web, il che darebbe credito alla sua affermazione di poter digitare nel giro di pochi anni una gran parte dei 60 milioni di volumi (contando le copie) che si trovano presso Harvard, Oxford, Stanford, l’Università del Michigan e la New York Public Library. Sarà un compito arduo, ma decisamente alla portata dell’azienda. “Non si tratta semplicemente di comprimere libri dentro una macchina per digitalizzare; in realtà occorre prima prendere i file digitali, trasferirli, immagazzinarli, comprimerli, identificarne i caratteri tramite la tecnologia OCR, indicizzarli e infine metterli on line”, precisa Wojcicki. “A questo punto diventa una delle tante operazioni gestite da Google, in cui vengono maneggiate grandi quantità di dati”. Ma l’intera operazione, ammette Wojcicki, dipende effettivamente da queste macchine per digitalizzare: un arsenale di fotocamere robotizzate brevettate, tuttora in fase di progettazione, che trasformeranno la digitalizzazione dei libri stampati in un vero e proprio processo di assemblaggio, e, in teoria, abbasseranno il costo a circa 10 dollari a libro, contro l’attuale prezzo minimo di 30 dollari.
Né Google né le biblioteche hanno chiarito esattamente come funzionerà il procedimento. Ma John Wilkin, bibliotecario universitario associato presso l’Università del Michigan, sostiene che, più o meno, dovrebbe funzionare in questo modo: “un intero scaffale di libri viene messo su un carrello, cercando di mantenerne inalterato l’ordine. I libri vengono poi passati in rassegna con un lettore di codici a barre. Durante la notte il software incamera tutti i codici a barre, estrae dal catalogo elettronico dell’università le schede leggibili dalla macchina, che poi vengono inviate a Google in modo da associarle ai libri. Infine il carrello viene trasportato nella sala operativa di Google”.
Questa sala è attrezzata con varie postazioni di lavoro in modo tale da poter digitalizzare più libri contemporaneamente. Secondo Wilkin, Google sta progettando una tipologia di macchine con un impatto minimo sul materiale cartaceo. “I libri vengono scansionati per ordine e poi il carrello ci viene restituito”, egli prosegue. “Li controlliamo di nuovo e contrassegniamo le schede per indicare che è stato eseguito lo scanning. Infine i file digitali vengono inviati alla centrale dati di Google in un formato semplice ed elaborati fino a produrre qualcosa che possa essere utilizzato”.
La rete dei libri
Comunque non è ancora abbastanza chiaro il modo in cui i lettori riusciranno successivamente a utilizzare questo materiale. Google provvederà a dare a ogni biblioteca aderente all’iniziativa una copia dei libri digitalizzati mentre un’altra copia la terrà per sé. Inizialmente Google utilizzerà la sua copia per potenziare il proprio programma, Google Print, in grado di combinare frammenti di un certo rilievo estrapolati da libri pubblicati recentemente con i risultati abitualmente ottenuti tramite il proprio strumento di ricerca sul Web. Se l’utente clicca su un risultato di Google Print compare l’immagine della pagina del libro contenente la parola chiave, unitamente ai link dei siti che vendono on line la versione stampata del libro e alle inserzioni pubblicitarie contenenti la parola chiave, vendute ai migliori offerenti tramite il programma AdSense di Google.
Ma i bibliotecari sono infastiditi dal fatto che Moby Dick potrebbe essere pubblicizzato insieme alla promozione dell’ultimo CD di Moby? “Sarebbe ipocrita sostenere che non ci siamo posti il problema” dice Wilkin. “Ma Google ha tutta l’aria di essere “un bravo cittadino”. Il modo in cui viene impiegato AdSense non mi preoccupa. Inoltre, se l’accesso venisse improvvisamente posto sotto controllo e se fosse necessario pagare per poter consultare i contenuti, potremmo sempre offrirli noi gratuitamente, quantomeno quelli non protetti dai diritti sul copyright”.
Inrealtà, Google potrebbe mettere direttamente on line i testi di tutti questi contenuti di dominio pubblico. In futuro potrebbe anche decidere di utilizzarli per creare un nuovo tipo di letteratura equivalente a quella sul Web, dice Wojcicki. “é come se pensando all’intera biblioteca di Harvard si potesse dire: “vorrei sapere quali sono tutti i libri in cui è citata una specifica persona”. Già questo sarebbe di per sé un fatto eccezionale per gli studenti. Ma oltre a ciò si potrebbe cominciare a individuare dei nessi fra i testi” e più precisamente quali libri citano altri libri e in quali contesti, allo stesso modo in cui i siti web rimandano ad altri siti attraverso gli ipercollegamenti. “Si pensi soltanto alle possibilità che si aprirebbero!”
(Gli esempi addotti da Wojcicki dimostrano in realtà come la storia sia fatta di ricorsi. I fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, programmarono BackRub, il predecessore del motore di ricerca di Google, mentre stavano lavorando su una prima bozza di digitalizzazione della biblioteca di Stanford, in parte promossa dalla Digital Libraries Initiative della National Science Foundation. Anche PageRank, l’algoritmo centrale di ricerca di Google che ordina i siti nei risultati di ricerca basandosi sulla quantità di siti a essi connessi, non è altro che la versione informatica di un’analisi delle citazioni, un sistema da tempo impiegato per valutare l’influenza dei quotidiani sui giornali studenteschi).
La biblioteca del Michigan, dice Wilkin, può fare quello che vuole con le scansioni digitali del materiale in suo possesso, fintanto che non li condivide con aziende che potrebbero impiegarle per fare concorrenza a Google. Queste limitazioni potrebbero rivelarsi scomode, ma la maggior parte dei bibliotecari si dice convinta di poterci convivere, considerato che il loro materiale, senza l’intervento di Google, non potrebbe essere affatto digitalizzato.
Accesso negato?
Altri, invece, sono più cauti in merito al salto che le biblioteche partner di Google stanno per fare. Brewster Kahle, che spesso viene dipinto come un visionario provocatorio, altre come un idealista senza speranza, ha fondato nel 1996 l’Archivio Internet no profit all’insegna del motto “accesso universale al sapere umano”. Da allora l’archivio ha preservato più di un petabyte di pagine Web (un petabyte equivale a un milione di gigabyte) insieme a 60.000 testi digitali, 21.000 registrazioni di concerti live e 24.000 file video: dai lungometraggi ai notiziari. Sul sito www.archive.org tutto è gratuito e, abbastanza prevedibilmente, Kahle sostiene che tutto il materiale delle biblioteche digitali dovrebbe essere altrettanto gratuito e liberamente accessibile così come lo è quello delle biblioteche fisiche.
In realtà non è un’idea così estrema: le biblioteche, in quanto depositi di libri e periodici, hanno da sempre garantito un accesso libero e gratuito. Ma il fatto che i file digitali sono molto più semplici da condividere dei libri stampati (una realtà che terrorizza gli editori così come i file MP3 terrorizzano le aziende discografiche) potrebbe portare a delle limitazioni sulla ridistribuzione tali da impedire alle biblioteche di concedere agli utenti quella libertà di accesso alle proprie collezioni digitali che invece vorrebbero loro accordare. “Google si è spinta a un punto tale da aver già fissato le modalità future attraverso le quali sarà possibile accedere alla letteratura mondiale”, afferma Kahle.
Secondo l’opinione di Kahle, ogni precedente tentativo di digitalizzazione è sfociato in una delle seguenti tre direzioni che, con una punta di retorica, definisce: Porta Uno, Porta Due e Porta Tre (Kahle ammette che la propria definizione può essere semplicistica, e che sono possibili anche altri sviluppi futuri).
La Porta Uno, sostiene Kahle, è esemplificata da Corbis, una società licenziataria di immagini di proprietà di Bill Gates, fondatore di Microsoft. Sin dai primi anni 1990 Corbis ha acquisito i diritti per le riproduzioni digitali di opere della National Gallery di Londra, del Museo Statale Hermitage di San Pietroburgo, in Russia, del Museo dell’Arte di Filadelfia e più di altri 15 musei. Oggi, in alcuni casi, è diventato impossibile avere accesso a queste immagini senza pagare Corbis. “Questa organizzazione ha preso le mosse dalla digitalizzazione di ciò che si trovava nel dominio pubblico per poi sostanzialmente trasferirlo sotto un controllo privato”, spiega Kahle. “La stessa cosa potrebbe accadere con la letteratura digitale. Non sarebbe altro che un’ulteriore conferma”.
Dietro la Porta Due coesistono pacificamente le banche dati pubbliche e private. A questo proposito Kahle chiama in causa il Progetto del Genoma Umano, che ha dato luogo a due versioni della sequenza del DNA del genoma umano: una versione indipendente formulata dagli scienziati finanziati dal governo, e una privata elaborata da Celera Genomics, di Rockville, in Maryland, e impiegata dalle industrie farmaceutiche per scoprire nuovi potenziali farmaci. Questo modello ha funzionato bene nel campo della genomica e Google sembra avviarsi nella stessa direzione, poiché serba per sé una copia di ogni collezione di ogni biblioteca mentre cede l’altra a terzi. Kahle teme in ogni caso che le restrizioni imposte da Google alle biblioteche impediranno loro di collaborare con altre società o organizzazioni per divulgare i testi digitali. Le biblioteche, per esempio, potrebbero essere limitate nel fornire materiale a progetti come il Libro Mobile di Internet Archive, un camper con accesso satellitare a Internet che può scaricare e stampare uno qualunque dei 20.000 libri che si trovano sul dominio pubblico.
La Porta Tre, la preferita di Kahle, è legata alle nuove forme di collaborazione in cui le aziende private offrono un accesso commerciale ai testi digitali, mentre gli istituti pubblici, come le biblioteche, garantiscono un libero accesso al mondo della ricerca e alla scuola. A tale proposito l’esempio più significativo è costituito dalla collaborazione di Internet Archive con Alexa, una azienda fondata da Kahle nel 1996 e venduta ad Amazon nel 1999. Alexa classifica i siti web in base al traffico che attraggono e i suoi server, come quello di Google, sono in continuo movimento su Internet producendo copie di ogni pagina che trovano. Ma, trascorsi sei mesi, Alexa devolve queste copie a Internet Archivi, che le immagazzina per un utilizzo di tipo non commerciale. “Jeff (Bezos, amministratore delegato di Amazon) concorda con l’idea che ci sono situazioni che possono essere sfruttate per scopi commerciali per periodi di tempo limitati, dopo di che si ha campo libero”, dichiara Kahle. “Le biblioteche e l’editoria sono sempre esistite nella realtà senza danneggiarsi l’un l’altra; anzi, si sono sempre supportate a vicenda. Ci piacerebbe vedere che questa tradizione non andrà a morire con l’avvento della conversione digitale”.
Pertanto qual è l’alternativa più vicina ai progetti di Google? Google non è Corbis, precisa Wojcicki, ma questo non comporta una limitazione della sua capacità di condivisione. “L’opzione della Porta Uno non ci ha mai interessato, né si tratta di una scelta pratica”, ella sostiene. “Non possiamo neppure optare per la Porta Tre perché non abbiamo diritti sulla maggior parte di questo materiale. Quindi la Porta Due è probabilmente la direzione verso cui siamo orientati. Cercheremo di avere un atteggiamento quanto più aperto, ma dovremo anche rispettare gli accordi con le diverse parti”.
In particolare, per evitare controversie sui diritti di copyright, le biblioteche di Oxford hanno deciso che soltanto i testi del XIX e dell’inizio del XX secolo verranno ceduti a Google per la digitalizzazione. “Altre biblioteche, invece, fra cui Harvard, hanno acconsentito alla digitalizzazione di parte del materiale protetto dal copyright”, dice Ronald Milne, attuale direttore della Biblioteca Bodleiana. “Sono piuttosto bravi nel gestire la questione, ma non noi volevamo spingerci fino a tanto, perché diventa tutto più complicato, e per di più non volevamo trovarci in difetto con la legge sull’editoria”.
Allo stesso tempo, però, l’American Library Association è uno dei sostenitori più accaniti della proposta di legge per rendere più efficace la modalità di applicazione dell'”uso corretto” della legge federale sul copyright, che consente di ripubblicare alcuni estratti di opere protette dal copyright a scopo di commento o critica. Inoltre, anche due dei partner universitari di Google − Harvard e Stanford – sostengono l’opera di Chilling Effects ClearingHouse, un sito web che monitora le denunce di violazione dei diritti di copyright da parte di webmaster, blogger e altri editori on line che si appellano al controverso Digital Millenium Copyright Act (DMCA) del 1998. Alcuni bibliotecari sono convinti che la digitalizzazione di massa potrebbe portare a una ridefinizione dell’uso corretto. Quanta più letteratura di dominio pubblico comparirà sul Web grazie a Google Print, tanto più i cittadini reclameranno un sistema equo, ma anche a basso costo, per accedere alla ben più grande quantità di libri protetti dal copyright. “Credo che tutto ciò contribuirà a rendere ancora più acceso il dibattito in corso sulla DMCA”, sostiene Wilkins.
La sala ad alta tecnologia
Chi ha più di 30 anni sa che le biblioteche di oggi hanno poco in comune con quelle dei nostri ricordi d’infanzia. Entrando in una grande moderna biblioteca ci si troverà di fronte a un esercito di computer e a un plotone di specialisti: dai bibliotecari di consultazione, esperti nell’accesso alle risorse on line, ai responsabili degli acquisti che scelgono libri, CD, DVD e abbonamenti, fino ai maghi informatici che riescono a far girare tutta la rete informatica della biblioteca.
La digitalizzazione e il crescente potere di Internet fanno sì che il lavoro di tutte queste persone diventi sempre più complesso. I responsabili acquisti, per esempio, non possono più fare affidamento solo sul tradizionale filtro qualitativo imposto dall’industria dell’editoria, ma devono valutare una impressionante varietà di materiale: dai libri di recente pubblicazione convertiti in forma digitale, ai milioni di pagine web, ai blog e ai nuovi siti che nascono invece già come digitali. “Su Internet la pubblicazione diventa un’attività promiscua”, osserva Abby Smith del Council on Library Information and Resources. “Le biblioteche sono perplesse e allo stesso tempo stimolate da tutto questo materiale da raccogliere e da selezionare”.
Ci sono anche i problemi relativi alla catalogazione e alla custodia dei testi digitati. Senza i necessari metadati − quali autore, editore, data e tutte le altre informazioni che una volta comparivano sulle schede del catalogo della biblioteca − un testo digitale si può definire perso. D’altronde la costituzione di questi indici può essere molto complessa, né sinora è emerso un criterio internazionale per stabilire il tipo di informazioni che occorre registrare. Inoltre, considerata la breve durata di ogni nuovo supporto tecnico per l’archiviazione dei dati, o di un qualunque archivio elettronico (quando è stata l’ultima volta che avete usato un floppy disk?), la conservazione dei materiali digitali per le generazioni future diventerà, paradossalmente, molto più costosa e complessa di quanto lo sia appoggiare semplicemente un libro cartaceo su uno scaffale di biblioteca.
Ma anche se ogni libro fosse condensato in pochi megabyte formati da 1 e 0 e parcheggiato in un qualche server di non so dove, le biblioteche probabilmente continuerebbero a sopravvivere. “Nel mondo dei bibliotecari nessuno è convinto che la biblioteca, intesa come spazio fisico, stia scomparendo”, afferma Smith. La nuova straordinaria Biblioteca Centrale di Seattle, per esempio, è costruita tutto intorno a una rampa a spirale di quattro piani che consente un accesso immediato alle collezioni di libri, mai sperimentato prima. Ma allo stesso tempo la biblioteca è provvista di 400 computer disponibili al pubblico (paragonati ai 75 della biblioteca che in precedenza sorgeva sulla stessa area), di punti di accesso WI-FI e di una “sala di missaggio” ad alta tecnologia in cui un gruppo di consultazione interdisciplinare si avvale di una gran quantità di materiale cartaceo ed elettronico per soddisfare le richieste degli utenti. Nel 2004 più di 1 milione e mezzo di persone hanno visitato la nuova biblioteca, quasi tre volte tanto l’intera popolazione di Seattle.
“La vera domanda che dobbiamo porci è la seguente: qual è il valore della proposta che le biblioteche saranno in grado di offrire in un futuro digitale?”, si interroga Smith. “Credo che sarà quello che è sempre stato, cioè la capacità di scandagliare una gran quantità di sapere, di classificarlo e infine di raccoglierlo per la descrizione e la catalogazione in modo che le persone possano disporre facilmente di informazioni certe e attendibili. L’unica differenza: i bibliotecari avranno a disposizione un universo ben più vasto da perlustrare.
Stephen Griffin, il precedente direttore della Digital Libraries Initiative della National Science Foundation (un progetto dell’era Clinton che sovvenziona una serie di studi universitari informatici sulla gestione delle collezioni elettroniche) ha una visione leggermente diversa. Alla domanda su come funzioneranno le biblioteche nel 2020 o 2050 – dopo che Google, o i suoi successori, avranno terminato di digitalizzare il sapere stampato del mondo – egli risponde dal punto di vista del lettore: “La questione è come si sentiranno le persone quando entreranno dentro una biblioteca”, afferma Griffin. “Spero che per loro la biblioteca sarà sempre un luogo accogliente in grado di fornire l’assistenza necessaria per trovare le informazioni di cui hanno bisogno. Quanto più ci si affida alla tecnologia, tanto più l’idea della biblioteca come deposito di libri tenderà a modificarsi. In ogni caso mi auguro che le persone continueranno a trovarle il luogo privilegiato per riflettere”.