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    Il punto di vista mediatico

    Media, sempre media fortissimamente media: più passa il tempo, più ci rendiamo conto che quello in cui viviamo tende a risolversi in un mondo mediatico, anche se questa considerazione richiede almeno un paio di precisazioni di metodo.

    di Gian Piero Jacobelli

    In primo luogo, quello mediatico è un punto di vista che si potrebbe applicare – e in realtà è stato applicato, per esempio dalla celebre Scuola di Toronto – a tutti i periodi storici, nella misura in cui sono tutti, anche se in maniera diversa, caratterizzati dai propri media. In secondo luogo, quando parliamo di media – notava Marshall McLuhan – non parliamo solo di comunicazione, ma più generalmente di tecnologia, che tuttavia, dal punto di vista mediatico, non riguarda un mero «fare», ma più specificamente, e più significativamente, un «fare per».

    «Fare per» comporta che la tecnologia non si esaurisca – come si direbbe evangelicamente – nello splendore della sua potenza, ma debba servire a qualcosa: un qualcosa che deriva dagli umani bisogni, sia quelli della sopravvivenza sia quelli della conoscenza. Non a caso il punto di vista mediatico informa quasi per intero questo fascicolo, a cominciare dai 35 innovatori che, sempre più spesso e in campi disparati, affrontano con i sistemi della «leggerezza» informatica problemi per i quali, sino a pochi anni fa, era necessaria la «pesantezza» del ferro e del fuoco. Ma non basta, perché l’idea che la tecnologia debba servire a qualcosa, a qualcosa non solo di concretamente utile, ma anche di umanamente proficuo, viene ribadita dal premio speciale attribuito all’innovatore il cui impegno progettuale abbia assunto un rilievo «filantropico».  

    Il punto di vista mediatico risuona alto, ovviamente, nelle celebrazioni per il venticinquennale del Media Lab di Boston, dove Nicholas Negroponte volle che fosse la creatività a fare la parte del leone e non semplicemente quegli «stupori e tremori» della ripetitività con cui non si fa la differenza.

    Anche Bill Gates, muovendosi tra le prospettive della comunicazione e quelle dell’energia, tende a coniugare il fare con il senso del fare, con quell’approccio alla realtà che potremmo definire «etico», per intendere non tanto l’attenzione per i problemi degli altri quanto quella per i problemi di tutti, oltre i compiacimenti della compassione, spesso collusivi e controproducenti.

    Paradossalmente, ma forse non del tutto, è proprio nel contesto delle reti e delle loro innovazioni che il punto di vista mediatico fa risaltare particolarmente l’esigenza di una riformulazione concettuale, per trasformare la partecipazione sempre più estesa agli ambiti virtuali in un fattore non di omologazione, ma di «eterologazione», nella condizione per cui, se qualcuno ha qualcosa da dire, sia come soggetto individuale sia come soggetto collettivo, possa dirla in modo tale da farla diventare un fattore di crescita per tutti.  

    Il punto di vista mediatico trova, infine, la sua più eloquente esemplificazione proprio là dove la mediazione assume un valore codificante: nella prospettiva del genoma, nel cui ambito si opera non per alterare, ma per conservare gli equilibri preesistenti, che definiamo «naturali» non perché vadano considerati ineluttabili e intoccabili, ma proprio perché richiedono riscontri e confronti eminentemente «culturali», cioè programmaticamente condivisi.

    Questo rappresenta probabilmente il senso più profondo del punto di vista mediatico, come sta affermandosi in questi anni difficili e come emerge con sempre maggiore chiarezza dalle pagine della nostra rivista: il senso di qualcosa che non sta in mezzo, passivamente e anzi in maniera condizionante, ma che va messo in mezzo, sia per agevolare i flussi comunicativi della convivenza, sia per trasformare questi flussi in progetti d’insieme. In «interfacce» intese non come relazioni convenzionali tra le parole e le cose, ma come veri e propri fattori personalizzanti d’identificazione, di proposta, di scelta

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