I primi provvedimenti della nuova Presidenza americana stanno suscitando reazioni e perplessità perché si dimostrano normativamente difficili da attuare, ma soprattutto incongrui rispetto alle tendenze di un mondo che, nonostante molte difficoltà, sta rapidamente integrandosi.
di Gian Piero Jacobelli
Non sorprende, considerate le premesse programmatiche della campagna presidenziale americana, che molte delle notizie giornalistiche pubblicate nell’ultimo mese riguardino le prime mosse del nuovo Presidente Donald Trump.
Anche in questi giorni le prime pagine di tutti i quotidiani mondiali fungono da critica cassa di risonanza dei primi provvedimenti del Presidente degli USA in merito alla immigrazione dal Messico e da alcuni Paesi mediorientali.
Questi provvedimenti stanno suscitando molte reazioni mediatiche, politiche e anche giuridiche, che ne pongono in questione la costituzionalità, a conferma di una materia particolarmente sensibile, anche perché – questo è il punto su cui vogliamo riflettere – in evidente controtendenza rispetto ai processi di globalizzazione e al conseguente incremento dei flussi migratori in tutto il mondo: in Europa e in America, ma anche in Asia e in Africa, senza dimenticare il quinto continente, l’Australia!
Per la verità, i provvedimenti relativi alla immigrazione non sono che un aspetto – il più eclatante, ma forse non il più incisivo, anche perché, probabilmente, caduco – del rilevante impatto che la Presidenza Trump comincia ad avere sul sistema legislativo e normativo degli USA.
In particolare, le perplessità si addensano sul possibile e preoccupante coinvolgimento di alcuni dei settori strategici della vita economica e sociale americana: ambiente, energia, ricerca e via dicendo, come si può facilmente evincere dalle numerose notizie in proposito apparse nelle ultime settimane nel nostro quotidiano online MIT Technology Review Italia.
Tra i tanti, per ovvia affinità tematica e argomentativa, vorremmo brevemente soffermarci sul problema della ricerca, a cui la nostra rivista ha già fornito vari riscontri molto indicativi. Trump sembra ancora incerto sulla nomina di quel consulente scientifico, del quale nessuno dei precedenti presidenti, nella seconda metà del Novecento, ha voluto e potuto fare a meno.
Il consulente scientifico, nell’ambito del gruppo di lavoro presidenziale, deve occuparsi dei progetti per la scienza, la tecnologia, l’ingegneria, sedendo al tavolo con i consulenti per la sicurezza nazionale, l’economia e la politica interna. Riveste quindi un importante ruolo di mediazione in materie assai delicate per i programmi di sviluppo produttivo e di crescita culturale del Paese, dove non può mancare uno sguardo prospettico sugli scenari nazionali e internazionali.
Non a caso si è detto che la scienza è «la migliore protezione di cui un presidente può disporre dall’essere ingannato, o dall’ingannarsi».
Da questo punto di vista, i provvedimenti sui flussi migratori avrebbero certamente potuto trovare una più opportuna contemperazione normativa, anche in considerazione delle sempre più preoccupanti contraddizioni che si evidenziano nel problema fondamentale dei rapporti tra lavoro e robotica.
In una recentissima nota (27 gennaio), Jamie Condliffe
sottolineava, infatti, la virtuale incongruenza tra l’intendimento presidenziale di accrescere l’occupazione interna e la progressiva robotizzazione del sistema produttivo, dalle piattaforme petrolifere alle fabbriche metalmeccaniche, dalla industria mineraria ai lavori agricoli.
Ma la incongruenza si moltiplica paradossalmente, se si considera che molti dei robot attualmente utilizzati per automatizzare il lavoro negli USA vengono e verranno realizzati in Cina, dove da tempo questo genere di produzioni viene perseguito e promosso.
Come si vede, dalla globalizzazione non si sfugge: se si cerca di arginarla da una parte, finisce per riemergere dall’altra. Segno che si tratta di un processo ormai pervasivo e coinvolgente, che richiederebbe non tanto una politica protezionistica, quanto un avveduto impegno di adeguamento consensuale, che tenga conto dei tanti fattori in gioco, economici, ma anche sociali e culturali.
Dobbiamo certamente confrontarci con un vero e proprio “passaggio” di civiltà, con tutti i trasalimenti e i contraccolpi che ogni passaggio comporta: un “passaggio” in cui i fenomeni migratori, da cui abbiamo preso le mosse, diventano sempre più strutturali e non più gestibili in termini di aggressivo contenimento e di estemporanee chiusure confinarie.
Per quanto lunghi e complessi, i processi globalizzanti in cui siamo tutti coinvolti costituiscono senza dubbio l’evento più significativo del nostro tempo, nel senso di una emergenza ineludibile e, tutto sommato, auspicabile.