Perché il “torto” e il “diritto”, volendo parlare di quello che i media definiscono “disordine mondiale”? Come ogni titolo che si rispetti, anche questo dice più di quanto sembra dire.
di Gian Piero Jacobelli
Da un rapido esame retrospettivo della edizione “bostoniana” della nostra rivista, si coglie come le due le parole più ricorrenti e incisive del 2016 siano “disordine” e “paura” (chaos e panic), che compaiono ripetutamente, da sole o insieme, nelle titolazioni e persino nelle copertine.
Si tratta dei nuovi Cavalieri dell’Apocalisse, come li definisce Italico Santoro in un recente saggio “chiaro e distinto” (Mondadori Università, 2016), con riferimento ai fattori critici che emergono negli ambiti principali della vita individuale e collettiva: da quello demografico a quello migratorio, da quello ambientale a quello finanziario, da quello militare a quello – non ultimo – della ricerca in campi sensibili come la biotecnologia e la comunicazione.
Anche se la spettacolarizzazione mediatica preferisce le contrapposizioni a fosche tinte, in realtà qui si gioca con emozioni spesso confuse e contraddittorie. Con quelle “passioni tristi”, per attualizzare la ormai celebre espressione spinoziana, che le rapide e radicali trasformazioni del mondo contemporaneo variamente suscitano in ciascuno di noi. Il disordine fa paura, la paura provoca disordine. Soprattutto la paura di “restare fuori”: la malattia di un tempo condizionato dai media, per cui è stato confezionato un apposito acronimo: FOMO. Fear of Missing Out.
Tuttavia, non bisogna fare di ogni erba un fascio: non c’è un solo tipo di disordine. Accanto agli ambiti concettuali e operativi appena accennati, potremmo qualificare il disordine in tre aggreganti categorie fenomenologiche.
Il disordine come fine di un ordine precedente
I processi identitari non sono più quelli di una volta, basati sulle appartenenze individuali e collettive. Anzi, spesso queste appartenenze diventano peccati di origine, dal familismo al clientelismo.
La crisi dei riferimenti tradizionali provoca depressione e talvolta reazioni antagonistiche, proprio in quanto la affannosa e spesso scomposta ricerca di nuove marche di identità tende a degenerare nell’esibizionismo delle cosiddette culture tribali o nella radicalizzazione delle culture variamente antagonistiche.
Il disordine come ordine improprio ed eccessivo
Il senso di impotenza che, in maniera crescente, caratterizza un mondo in cui il potere, quello più duro e meno puro, tende a nascondersi, si è tradotto nelle ricorrenti “teorie del complotto” e nel fantasma di quello che è stato ambiguamente definito come Nuovo Ordine Mondiale: dall’impero plutocratico, il caricaturale capro espiatorio dei totalitarismi del primo Novecento, alla Trilaterale di kissingeriana memoria; dal Grande Fratello, immaginato da George Orwell, a Echelon, il sistema di spionaggio globale su cui s’incardina l’Era della Sorveglianza.
La sicurezza è necessaria, ma se non condivisa e istituzionalizzata, finisce per rivolgersi contro le stesse popolazioni che la invocano ormai quotidianamente. Risulta sempre più difficile contemperare sicurezza interna ed esterna, nella misura in cui i vecchi soggetti nazionali stentano a coordinarsi nelle nuove dimensioni globalizzate del conflitto.
Non a caso si parla di una “sicurezza senza soggetto” (Cosimo Risi e Alfredo Rizzo, L’Europa della sicurezza e della difesa, Editoriale Scientifica, 2016), che allude a una sicurezza ipertrofica, ma insicura, perché manca una definizione di sicurezza riferibile a una specifica e consolidata situazione istituzionale.
Il disordine come diverso ordine emergente
Il pensiero sociologico e filosofico tende attualmente a tematizzare un ordine non più ordinato in senso definito e definitivo, un ordine “disordinato”, non pre-stabilito, ma mutevole e occasionale, sostanzialmente perturbante. Ma anche in questo caso bisogna distinguere.
Se Zigmunt Bauman, il grande sociologo recentemente scomparso, usava la ormai proverbiale formula della “modernità liquida”, che per altro si risolveva in un punto di arrivo piuttosto che di partenza, un altro autorevole sociologo, Richard Sennett, ha preferito soffermarsi sulla emergenza di una comunità processuale e negoziale. Una comunità “granulare”, che richiama la suggestiva metafora della “schiuma” proposta dal filosofo tedesco Peter Sloterdjik, per alludere a un sistema aggregativo che continuamente si restringe e si allarga, si mescola e si divide: drammaturgica rappresentazione di quell’ordine “browniano” con cui il nostro tempo “di passaggio” deve fare i conti.
Passaggi avanti e indietro
Queste tre dimensioni del disordine – quella dell’ordine terminale, quella dell’ordine eccessivo, quella dell’ordine disordinato – non si escludono l’una con l’altra, anzi possono venire incluse in una nuova narrazione, configurabile nell’articolazione tripartita dei tradizionali riti iniziatici: separazione, margine, aggregazione. Che consentono, sia pure faticosamente e rischiosamente, di assumere una diversa identità senza smarrire la coscienza di sé.
Tuttavia, ogni rito iniziatico è critico perché comporta il passaggio, ma tende inevitabilmente a spettacolarizzalo e, nell’enfasi “pornografica” della ripetizione, a non farlo passare. Si pensi, si parva licet componere magnis, ai tanti grotteschi fallimenti relazionali maturati nelle ipertrofiche cerimonie matrimoniali della cinematografia americana, per rendersi conto della cattiva coscienza implicita nella idea paradossale che, per cambiare, si debba rimuovere il proprio consueto modo di essere.
La “pornografia della catastrofe”, che porta quotidianamente il disordine agli onori dello schermo, vincolando lo spettatore alla impotenza mediatica, rischia di risolversi in un più pervasivo e intollerante controllo sociale: in un insidioso ostacolo a rendersi conto del nuovo che pure matura nelle persistenze frammentate del vecchio mondo.
Per concludere dall’inizio
Invece di fare della paura un alleato del disordine, bisognerebbe impegnarsi a farne il presagio di un ordine diverso, inducendo a interpretare il presente in funzione del futuro e non del passato.
Ecco dunque il senso del titolo da cui abbiamo preso le mosse: il “torto” non è il contrario del “diritto”, ma la sua creativa dialettizzazione. Che va esercitata nel dialogo operoso, come voleva Daniello Bartoli, gesuita enciclopedico, il quale, nel suo celebre libello Il torto e il diritto del non si può, si adoperò a relativizzare e contestualizzare le rigide norme della Crusca, che lo accusava di un uso non canonico della lingua italiana.
La locuzione venne ripresa due secoli e mezzo dopo, con un più esplicito riferimento alla reciproca fungibilità dei due termini, dal Premio Nobel per la letteratura Shmuel Agnon nel suo ammirevole romanzo di formazione E il torto diventerà diritto (1912). Riprendendo l’interminabile pellegrinaggio di Ulisse, Menaschem Hajim, il protagonista di Agnon, attraversa le innumerevoli e spesso incoerenti diversità valoriali del cosiddetto umanesimo, dimostrando che il rischio maggiore non è quello di “dover cambiare”, ma quello di “non poter cambiare”.