di Gian Piero Jacobelli
Oggi tra pubblico e privato sembra vada progressivamente instaurandosi una sorta di braccio di ferro, quando non una condizione di aperta belligeranza. Non sorprende che questa rivoluzione dei costumi si giochi soprattutto nel campo delle comunicazioni, che ormai concerne – in forme diverse, ma concomitanti, se non confluenti – l’intero orizzonte relazionale: non solo le relazioni tra sé e gli altri, ma anche quelle tra sé e sé.
A riprova di questa condizione di “doppio legame”, cioè di conflitto tra un privato troppo pubblico e un pubblico troppo privato, emerge in tutta la sua complessità quella che potremmo definire come la guerra dei dati, che sta divampando soprattutto negli Stati Uniti, anche a seguito delle spiazzanti provocazioni della presidenza Trump.
Poche settimane fa, i grandi media d’oltre oceano davano notizia, con comprensibile scalpore, della decisione del Senato statunitense di cambiare le regole sulla privacy dei consumatori, che erano state definite soltanto nello scorso ottobre. Le nuove regole, in corso di ratifica, comportano una totale liberalizzazione della possibilità dei gestori dei sistemi di telecomunicazione di monitorare in maniera continuativa e condividere le attività in rete degli utenti, senza richiedere loro alcuna autorizzazione. Inoltre, la massa di dati così raccolta non dovrà neppure venire posta in sicurezza rispetto a possibili hackeraggi.
Una vera e propria rivoluzione, che rende virtualmente pubblico quanto veniva e viene considerato privato: le proprie relazioni, i propri interessi, le proprie propensioni. Non sorprende, quindi, che nel frattempo si stia moltiplicando l’offerta di software facilmente accessibili, in grado di proteggere il traffico Internet da occhi indiscreti, sia ostacolando la tracciatura dei movimenti in rete, sia mimetizzando la provenienza del traffico stesso. Sono reperibili, infatti, numerose applicazioni in grado di criptare la messaggistica, prevenire le intercettazioni o nascondere l’indirizzo Internet di un utente.
Appare comunque evidente come, nella difesa dalle ingerenze del pubblico, non manchino le motivazioni che nel pubblico, o meglio nel politico, tornano a proiettarsi. Non a caso la diffusione di queste applicazioni cresce esponenzialmente in occasioni di conflitti o disordini, a partire dalle cosiddette primavere arabe, per proseguire in Turchia, Brasile e negli stessi Stati Uniti, dopo le elezioni presidenziali dello scorso anno.
Da sempre le tecnologie di cifratura e di decifrazione si sono reciprocamente inseguite, l’una sforzandosi di prendere il sopravvento sull’altra. Ma, naturalmente, c’è sempre qualcosa di nuovo sotto il sole. In questo caso, nuovo è che il confronto non avvenga soltanto tra soggetti istituzionali, civili o militari, come nel caso delle guerre calde o fredde, ma tra questi soggetti “collettivi” e la miriade di soggetti “individuali”, per i quali il problema non è tanto quello di difendere qualche segreto, quanto quello di difendere la propria libertà di decisione da condizionamenti più o meno manifesti. Quei condizionamenti che vengono resi possibili dalla individuazione di abitudini e inclinazioni verso cui indirizzare automaticamente specifiche sollecitazioni.
Se prima si pensava che essere in tanti impedisse di venire singolarmente perseguiti, oggi il trattamento dei dati prescinde da generalizzazioni statistiche e può venire del tutto personalizzato. Insomma, il privato non viene più insidiato esclusivamente dal pubblico, ma omeopaticamente dallo stesso privato e il vero rischio è che, passo dopo passo, ci si debba difendere da se stessi, dalle proprie scelte, consolidate e ribadite per via mediatica.
In altre parole, se una volta per farsi riconoscere bisognava “ripetersi”, oggi bisognerebbe riuscire a “fare la differenza”.