Un pregevole restauro del ciclo erculeo di Palazzo Venezia in Roma, oltre a ribadire la importanza della collaborazione tra pubblico e privato per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, ripropone, anche nella dialettica tecnologica tra il fare e il dire, la rilevanza ideologica di ogni riflessione sul cambiamento, individuale e collettivo.
di Gian Piero Jacobelli
Già in altre occasioni la nostra rivista si è occupata di Ercole e delle sue “fatiche”, che non sono semplicemente delle imprese eroiche, ma propriamente delle imprese “faticose”, in quanto alludono etimologicamente al dissolversi e al venire meno: in una parola, a quell’articolato passaggio iniziatico dalla sauvagerie alla condizione umana, che nella storia iconografica occidentale ha fatto di Ercole l’emblema di una forza capace di controllarsi e finalizzarsi “tecnologicamente”.
Non a caso, nelle corti europee del Rinascimento, le Fatiche di Ercole hanno assunto il valore emblematico di un potere in grado di farsi valere sia mediante le opere, sia mediante le parole. Per cui i castelli e i palazzi del Quattrocento e del Cinquecento sono stati decorati con splendide raffigurazioni delle ormai proverbiali “fatiche”, non sempre dodici, ma talvolta selezionate accuratamente in ragione dei programmi di comunicazione pubblica che perseguivano.
Esempio suggestivo di questa disseminazione erculea, proprio in questi giorni è stato presentato alla stampa e al pubblico il bellissimo restauro del soffitto e dell’affresco nella Sala delle Fatiche di Ercole, in Palazzo Venezia a Roma.
Il restauro, curato per la parte scientifica dal Polo Museale del Lazio, diretto da Edith Gabrielli, e finanziato dalla Fondazione Silvano Toti, non costituisce soltanto una convincente realizzazione dei risultati conseguibili dalla collaborazione tra strutture pubbliche e private. Ma, grazie alla rinnovata leggibilità del programma compositivo, consente anche stimolanti riflessioni sulla logica con cui i potenti del tempo concepivano i luoghi del potere.
In questo caso si tratta del cardinale veneziano Pietro Barbo, poi diventato Paolo II (1464-1471), il quale, nell’edificare al centro di Roma il Palazzo Venezia, volle incorporarvi alcune delle Fatiche di Ercole, che probabilmente gli parvero più significative nell’ambito di quella concezione della Roma Caput mundi, che il Papato romano, negli anni successivi alla caduta di Bisanzio, intendeva rappresentare con quanto più vigore possibile, aprendosi al tempo stesso al respiro intenso di una città predestinata a “governare” sino dalla sua fondazione.
Ne è scaturito un programma iconografico inserito in un loggiato a dodici arcate, di cui quattro con fontane e amorini, “aperte” sulla città, e otto dedicate alle Fatiche erculee: Ercole e il leone Nemeo, Ercole e Anteo, Ercole e i buoi di Gerione, Ercole e Gerione, Ercole e il drago Ladone, Ercole e la cerva di Cerinea, Ercole e gli uccelli di Stinfalo, Ercole e il centauro Nesso.
A parte la tradizionale variabilità del ciclo erculeo, sembrano mancare proprio quelle “fatiche” che, invece di contrapporsi alla forza bruta dei mostri “d’oltre confine”, riguardano piuttosto i “passaggi” più istituzionalizzati: per esempio, quelli tra la vita e la morte, con il cane Cerbero, o quelli tra le differenze di genere, come il cinto della regina delle Amazzoni, o quelli tra i limiti del mondo, come i pomi delle Esperidi.
Per tornare al nostro punto di vista deputato, quello della tecnologia, si potrebbe dire che lo scopo del cardinale Pietro Barbo fosse quello di sottolineare la importanza di una tecnologia difensiva nei confronti delle contrastanti diversità che allora stavano letteralmente assediando il centro della civiltà occidentale.
Mentre, a fronte di questa esplicita affermazione di forza ideologica e istituzionale, gli sembrò opportuno rimuovere quei passaggi esistenziali, relazionali e culturali, che avrebbero reso assai più evidente come, quando qualcosa cambia, contrariamente alla logica gattopardesca, tutto debba cambiare.