Non sempre le parole servono a capirsi, ma talvolta servono a evitare che il capirsi possa tradursi in un conflitto manifesto: la proliferazione inconsulta di molte espressioni occasionali, come per esempio il famigerato “cioè”, lascerebbe intendere che non ci sia nulla da capire, ma anche che talvolta ci si possa capire comunque.
di Gian Piero Jacobelli
Al caffè, dal Seicento luogo emblematico della curiosità conversativa, mi capita di ascoltare le conversazioni dei vicini, soprattutto se parlano a voce alta, talvolta troppo alta. C’è sempre qualcosa da imparare, anche se per la verità sempre meno. E non per mancanza di argomenti o di capacità argomentative. Piuttosto perché questi argomenti sempre più spesso vengono soffocati da una vera e propria sindrome delle interiezioni.
Tutti noi, sia chiaro, abbiamo le nostre fisime stilistiche: da quelle puramente espressive, quasi uno schiarirsi la voce e prendere fiato, quali “ah”, “eh”, “oh”, a quelle discorsive, quali “per dire”, “come dire” e, letteralmente, via dicendo, a quelle, infine, che potremmo definire congiuntive, che cioè servono a connettere una affermazione a un’altra, con funzioni dichiarative o esplicative. Il “cioè”, appunto, che da qualche anno si sta manifestando come una sommamente contagiosa peste linguistica, sia per il colto, sia per l’inclita.
Nel caso da cui ho preso le mosse, due giovani, un ragazzo e una ragazza, stavano discutendo di questioni apparentemente importanti, come il loro impegno culturale in ambito editoriale. Interessante, forse, perché purtroppo il famigerato “cioè” ricorreva praticamente ogni paio di parole, al punto da confondere e distogliere ogni possibile comprensione.
Non per caso, almeno nella cultura che si definisce giovanile per non definirla tribale, di “cioè” sono piene non soltanto le conversazioni, ma anche le edicole, dove ormai da oltre trent’anni fa bella mostra di sé – anche in questo caso si fa per dire – una rivista che si chiama proprio Cioè e che si aggira negli angiporti adolescenziali, con drammatici interrogativi del genere: «Se il mio ragazzo mi prende per mano, posso restare incinta?».
In altre parole, “cioè”, oltre che un prodotto di consumo, è diventato, come si diceva all’inizio, una parola senza senso: una vera e propria interiezione, che non significa nulla, se non forse ribadire il desiderio di continuare a parlare.
Eppure non si tratta, come in altri casi connessi alla globalizzazione linguistica, di una parola nuova o seminuova. L’Accademia della Crusca cita numerose ricorrenze che risalgono agli albori gloriosi della lingua italiana: a Dante, a Petrarca, a Boccaccio, quando il “cioè” significava qualcosa, anzi molto. In effetti, proprio Boccaccio lascia intendere come, allora, il “cioè” servisse non tanto a tirarla per le lunghe, quanto a parlare fuori dai denti, in maniera esplicita e incisiva: « Alla mia età non istà bene l’andare omai dietr’a queste cose, cioè a ragionare di donne, o a compiacer loro». E chi vuole intendere, intenda!
“Cioè” significava, secondo la sua etimologia latina Id est, “questo è”, “questo vuole dire”, con valore esplicativo, e talvolta “questo non vuole dire”, con valore correttivo. Un significato forte, quindi, che venne adottato anche dalla scienza nei suoi prodromi cinquecenteschi. Molti testi di riferimento in matematica, fisica, biologia fanno largo uso di questa espressione che assume un determinante valore dimostrativo: id est, appunto. Ma oggi, purtroppo, id erat.
Qualcosa, anzi molto, è avvenuto nel frattempo sia sul piano conoscitivo, sia su quello estetico, e tanto più etico. È avvenuto che la infrastruttura del discorso sta prevalendo sulla sua struttura, se non altro perché la conversazione, che una volta costituiva una occasione e uno strumento fondamentale dello scambio di informazioni, ha perso grande parte della sua portata informativa, anzi è diventata il luogo elettivo di quelle che oggi si chiamano fake news.
Da questo punto di vista, si potrebbe rilevare che il “cioè” si sta configurando come il punto di inversione della cosiddetta clessidra catastrofica di René Thom: la catastrofe del senso compiuto, la catastrofe della intenzione comunicativa, la catastrofe della istanza cartesiana del “chiaro e distinto”.
Poiché, nonostante la ironia voltairiana, resto leibzianamente convinto che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, se non altro perché non ne conosciamo altri diversamente acconciati, e poiché lo stesso Thom afferma che ogni rottura di un equilibro ne prefigura un altro, o anche molti altri, non voglio trarre da questa apparentemente assurda proliferazione interstiziale del “cioè” alcuna considerazione apocalittica, in merito al degrado culturale di questa o di quella generazione più o meno perduta.
Preferisco dare fiducia a quanti ci fanno notare come spesso, quando viene meno nella pratica mediatica la funzione informativa, tenda a cresce la funzione relazionale. Si pensi all’insulso, ma fervido cinguettio del linguaggio amoroso!
Insomma, meno ci capiamo, più riusciamo a stare insieme. In ciò consisterebbe la virtù del malinteso e il sorriso reciproco, emozionato e compiacente di quei due giovani impegnati a giocarsela con il nulla del “cioè”, in quel caffè romano di mezza mattina, fa bene sperare. Cioè, ci consente di non disperare.