Ci sono invenzioni che cambiano le condizioni materiali della vita e ce ne sono altre che cambiano quelle spirituali, come le cosiddette pietre d’inciampo, che hanno cadenzato il Giorno della Memoria come la punteggiatura di un testo impronunciabile.
di Gian Piero Jacobelli
Il Giorno della Memoria, come ogni anno, dopo la delibera dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel novembre 2005, si è celebrato il 27 gennaio, quando le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Ne è scaturita una miriade di eventi, istituzionali, musicali, teatrali, artistici in senso lato, oltre a una intensa programmazione mediatica di carattere giornalistico e documentario.
Non tutti questi eventi, a dire il vero, hanno realmente contribuito a mantenere viva la memoria di fatti che non si sa mai come ricordare perché non ci sono parole che li possano descrivere. «Dopo Auschwitz», scriveva Theodor W. Adorno nel 1966, «nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile».
Per quanto discussa e comunque largamente disattesa, questa considerazione di Adorno resta un monito determinante nei confronti di ogni possibile strumentalizzazione di una memoria così sconvolgente, per fini politici o, anche più banalmente, nel senso della arendtiana banalità del male, per fini spettacolari.
Ma non è questa la sede per discutere di un problema che certamente continuerà a interpellare le nostre coscienze e, nonostante ogni tormento interiore, a farci responsabilmente parlare di quanto è accaduto. Scriveva il poeta di lingua tedesca Paul Celan: «Parla – ma non dividere / il sì dal no. / Da’ anche senso al tuo pensiero: / dagli ombra».
Piuttosto vorrei segnalare una esperienza ormai consueta anche in molte città italiane, che affida al silenzio la sua forza rievocativa e che costituisce una vera e propria invenzione, di quelle in grado di conferire un senso diverso alla vita.
Si tratta delle cosiddette “pietre d’inciampo” che un artista tedesco, Gunter Demnig inventò a Colonia nel 1995 e che da allora si sono diffuse in molti paesi europei, oltre all’Italia. Queste piccole targhe d’ottone della dimensione di un sampietrino – il blocchetto di pietra vulcanica usato dalla metà del Settecento per lastricare le strade nel centro storico di Roma e in particolare Piazza San Pietro, da cui il nome – si contano ormai in decine di migliaia e non mancano di attirare l’attenzione dei passanti, locali o turisti. Suscitando, senza gridare e senza dire ciò che non possono dire, oltre ai nomi e alle date, il ricordo lacerante di persone scomparse e tragicamente uccise soltanto perché appartenevano a gruppi umani, ebrei e non soltanto, che la violenza di un potere inqualificabile decise prima di emarginare e poi di eliminare.
Molti di questi passanti fotografano quelle pietre dorate che ne frenano il passo, perché, si sa, oggi paradossalmente per vedere davvero il mondo lo si deve guardare attraverso l’occhio degli schermi portatili. Ma a nessuno, per quanti mi passano sotto gli occhi dalle finestre della nostra redazione romana che si affaccia proprio su una strada dell’antico Ghetto, viene in mente di fare un selfie con quelle pietre, come solitamente si fa con i tanti monumenti che le circondano. Segno che in quel duro silenzio della pietra diversamente eloquente si può ascoltare un richiamo tanto più incisivo quanto più privo di particolari enfasi cerimoniali.
Una autentica e geniale invenzione, quindi, che in un mondo frastornato da parole profuse e gridate, consente di dare voce all’indicibile semplicemente segnalando una presenza tragicamente assente mediante una assenza improvvisamente presente.