Anche con riferimento ai vecchi e nuovi corsi della politica, prosegue il confronto sul sistema formativo italiano, a cui si chiede contemporaneamente di restare al passo con i tempi, senza però perdere la sua talvolta sorprendente, ma tradizionale qualificazione di eccellenza.
di Gian Piero Jacobelli
Abbiamo già avuto modo di sottolineare ripetutamente anche in questa sede un paradosso che concerne il nostro sistema formativo, nei suoi diversi ordini e gradi.
Il paradosso di una scuola che, da un lato, chi ha ancora voglia di riflettere sull’argomento, continua a percepire come un fattore di eccellenza. Basta pensare agli elogi che, sia pure con molti se e molti ma, si continuano a riservare al liceo classico italiano, che sosterrebbe validamente il confronto con quello americano o persino con quello tedesco.
Mentre, dall’altro lato, si moltiplicano le critiche, talvolta radicali, rivolte a un sistema scolastico che si dimostrerebbe sempre meno capace di offrire basi formative idonee ad affrontare il nuovo mondo globalizzato, quello delle grandi reti della mobilità e della comunicazione, ma soprattutto quello delle convergenze concettuali e linguistiche, quello della versatilità e pervasività algoritmica, quello del rapporto tra una precarietà professionale e una formazione continua.
Un paradosso non facile da dirimere come dimostra un incisivo intervento di Salvatore Settis, una delle attuali coscienze critiche del nostro Paese, apparso sabato 7 luglio su Il Fatto Quotidiano. In questo intervento, Settis prende le mosse da una “confessione” che coincide sostanzialmente con uno dei due corni del dilemma a cui abbiamo accennato. Si dice, infatti, «convinto che lo straordinario successo all’estero dei nostri ricercatori e studiosi, che l’Italia matrigna respinge dalle proprie università sottofinanziate, sia dovuto in primo luogo alla bontà dei nostri licei, che molti, in America o in Germania, considerano i migliori del mondo».
Da questa constatazione, del tutto condivisibile per chiunque abbia avuto esperienza diretta di qualche giovane laureato o dottorando italiano traferitosi con successo nelle università estere, Settis trae spunto per una serrata critica nei confronti di quella che definisce la Campagna per le Competenze del nostro Ministero dell’Istruzione, che dieci anni fa ha sintomaticamente perso la qualifica di “pubblica”, forse per non creare conflitti d’interesse con quella privata, sempre più dilagante.
Competenza significa che alla scuola non si dovrebbe più chiedere di insegnare “qualcosa”, ma “qualcome”, se ci si passa il consonante neologismo, «per preparare i giovani alla vita adulta anche ai fini della futura vita lavorativa».
Insomma, bisognerebbe essenzialmente “imparare a imparare”, imparare a progettare, comunicare, collaborare e partecipare, risolvendo problemi e addestrandosi alla acquisizione e alla interpretazione delle crescenti informazioni da cui, giovani e anziani, siamo quotidianamente subissati. «Preparare a una Vita Adulta», precisa Settis, utilizzando le maiuscole come uno strumento per alzare ironicamente la voce, «in cui non si impara nulla, se non la tecnica per imparare qualcosa».
Settis si dichiara in totale disaccordo con queste opzioni formali e funzionali, che prescindono da ogni specifico contenuto, da «quel ventaglio delle conoscenze di base del liceo che fa la vera differenza» e che non dipenderebbe dalla “competenza”, ma «da ciò che si è veramente imparato»: da Omero, Virgilio e Dante, ma anche dalla biologia, dalla fisica, dalla matematica e via dicendo.
Trasmettere «concrete conoscenze, non astratte e vuote competenze»: questo sarebbe il compito degli insegnanti, il cui obiettivo sia quello di «cambiare il futuro».
Poiché i giudizi di Settis si riferiscono alle riforme scolastiche degli anni recenti, alla Buona Scuola, per intenderci, prescindono dai propositi e dai programmi del nuovo governo, anteponendo alla polemica politica quella pedagogica ed epistemologica. Per questo motivo ci paiono meritevoli di attenzione, sia con riferimento alla sue considerazioni in positivo sulle capacità concorrenziali della scuola italiana, sia anche in merito alle suggestioni più condizionate da un modello, quello dei “contenuti”, appunto, a sua volta datato e non del tutto rispondente non tanto alle esigenze del mondo globalizzato, quanto a quelle di una vita soddisfacente e gratificante.
Non dovrebbe, infatti, esservi contraddizione, ma coalescenza, tra la forza formativa della informazione e la capacità di acquisire e interpretare questa informazione. Quale che sia: per la promozione di questa capacità, non dovrebbe esserci differenza tra i poemi omerici e la tavola periodica degli elementi, tra la filosofia cartesiana e la storia, discutibilissima, del Risorgimento italiano.
Certo, tutto dipende da come la scuola, e in particolare la scuola media superiore, intende procedere: se ingessando le competenze su una informazione ripetitiva e disanimata, ovvero ingessando la informazione su competenze meramente tecniche e non riflessive, su un “saper fare” piuttosto che su una “pratica” complessa e consapevole.
Tutto dipende dalla capacità della scuola di rendersi essa stessa interprete del mondo che cambia, non mediante la ormai pervasiva e pedante proliferazione di “progetti”, “percorsi” e, inevitabilmente, “narrazioni”, che rappresentano un modo per irreggimentare nella ipotetica creatività dei docenti la reale creatività dei discenti.
Al contrario, sarebbe opportuno e necessario adottare sistematicamente e diffusamente una sorta di “algoritmo”, basato su una triplice dialettica: quella tra testo e contesto, relativizzando qualsiasi informazione, anche quelle culturalmente più autorevoli e consistenti; quella tra linguaggio e metalinguaggio, insegnando a “pensare il pensiero”, come postulava José Ortega y Gasset, un grande intellettuale della prima metà del Novecento, il quale al sistema formativo e alla filosofia della formazione dedicò pagine che sarebbe utile rileggere; e, infine, quella
tra dentro e fuori, comparando i sistemi di valori che distinguono le logiche della scuola da quelle della casa e del mondo e insegnando a coniugarle insieme, dopo avere acquisito consapevolezza della loro diversità e al tempo stesso della loro connessione.
Ma questo è un altro discorso su cui avremo modo di tornare, nella speranza che si moltiplichino gli interventi come quello di Salvatore Settis: espliciti, motivati e non solo “competenti”, ma anche “pertinenti”. Cioè capaci di aprire prospettive che sollecitano ad andare oltre la situazione data, anche quando non ci si trovi del tutto d’accordo.