Cosa può fare la tecnologia non soltanto per cambiare le nostre condizioni di vita, ma anche per cambiare le nostre decisioni di vita, in particolare quelle politiche, vale a dire quelle che riguardano, oltre alla vita, la convivenza?
di Gian Piero Jacobelli
Nell’ultimo fascicolo della edizione statunitense di MIT Technology Review gli interrogativi cruciali sulla capacità delle tecnologie informatiche di farci essere come vorrebbero quanti gestiscono quelle tecnologie, vengono messi a fuoco in maniera quanto mai esplicita e incisiva. Certamente più esplicita e incisiva di molte improvvisate speculazioni filosofiche ed etiche, che poco sanno di scienza e tecnologia.
«La tecnologia minaccia la nostra democrazia o invece può salvarla?»: questo è l’interrogativo posto a studiosi del sistema democratico occidentale, ma anche di quei sistemi in cui né i processi del consenso né quelli della decisione potrebbero venire definiti come democratici.
Si parte, ovviamente, dalle polemiche e dai conflitti anche giudiziari concernenti le ultime e penultime consultazioni elettorali negli Stati Uniti, con la scoperta di quanto abbia potuto conseguire un uso avveduto della Rete, ma anche dei pericoli di indebite intrusioni e di potenziali inquinamenti che questo uso ha comportato.
Anche più interessanti ci sembrano gli interventi che segnalano i limiti di queste operazioni informatiche – chiamiamole così per intenderci – perché, è vero che i new media tendono a polarizzare l’elettorato. Ma è anche vero che, da un lato, questa polarizzazione non fa che accentuare tendenze già rilevabili nelle popolazioni considerate e che, dall’altro lato, si registrano
polarizzazioni multiple, tendenti piuttosto a frammentare le aggregazioni prevalenti, moltiplicando i centri d’interesse e di convergenza.
«Il problema siamo noi», conclude Adam Priore, inclini come siamo a perseguire i nostri modi di essere più che a esplorare eventuali alternative.
La dimostrazione “visiva” di questo per altro assai noto fenomeno ci viene offerta da alcune straordinarie mappe delle attività di Twitter, in cui un generale effetto di polarizzazione si accompagna a una rapida proliferazione di aggregazioni secondarie e soprattutto a una rilevante dinamicità di queste aggregazioni, che si “muovono” a ritmi crescenti, modificando rapidamente ogni ipotesi di stabilità ideologica. E rendendo così particolarmente complesso e aleatorio il lavoro di quanti, esperti, consulenti, operatori, si sforzano di “pilotare” queste dinamiche verso esiti prestabiliti. Nel paesi cosiddetti democratici, ma anche in quelli con regimi più autoritari.
A nostro avviso, tuttavia, il problema di maggiore interesse resta quello delle neuroscienze e dell’imaging biomedico, che al momento ne costituisce lo strumento di maggiore impatto e suggestione. Ne discute Elizabeth Svoboda, mantenendo giustamente la barra diritta tra entusiasmi eccessivi e scetticismi intempestivi.
Tra quei ricercatori che, disponendo i propri elettrodi sul cranio delle persone coinvolte nell’esperimento, si dichiarano in grado di predire come queste persone decideranno nelle questioni cruciali della loro vita, e in particolare come voteranno. E quei ricercatori che restano consapevoli della differenza esistente tra le funzioni cerebrali, tra l’attivazione di un’area del cervello e un’altra, e il comportamento che dovrebbe derivarne. Ma che, in realtà, tra il tutto e il niente, tra l’“acceso” e lo “spento”, sembra muoversi prevalentemente lungo la linea d’ombra della «esitazione», delle motivazioni molteplici e spesso contrastanti.
Come suggeriva Baruch Spinoza, il grande filosofo olandese del Seicento, proprio perché il corpo e la mente sono la stessa cosa, in quanto attributi della stessa sostanza, non si può passare conseguenzialmente dall’uno all’altra, perché l’uno e l’altra esprimono compiutamente la realtà a cui si riferiscono. Si può, quindi, ragionare soltanto nei termini dell’uno o dell’altra: per esempio in termini di emozioni, del corpo, o di sentimenti, della mente.