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    Chi ha paura della Intelligenza Artificiale?

    Mentre nell’editoriale di settembre si è affrontato il problema della Intelligenza Artificiale dal punto di vista della innovazione imprenditoriale, qui il discorso viene ripreso dal punto di vista dell’impatto sulla organizzazione e sulla specializzazione del lavoro.

    di Gian Piero Jacobelli

    Con Intelligenza Artificiale, che significa tante cose, qui intendiamo la capacità di elaborare grandi quantità di dati, con cui descrivere la realtà, ma anche consentire alle macchine di orientarsi autonomamente in questa realtà, si tratti di guidare un’automobile, di formulare diagnosi mediche, di operare sul mercato finanziario.

    Accanto alla raccolta ed elaborazione dei dati, con Internet delle Cose, emergono le nuove macchine che “imparano”, la interazione più immediata tra uomo e macchina, cioè le evolutive interfacce concettuali e comportamentali, e la manifattura additiva, stampa 3D, cioè la riconversione dal digitale al reale.

    Gli strumenti informatici dotati di IA riescono ad eseguire compiti simili a quelli che sarebbe in grado di portare a termine un essere umano: operazioni, dalle più semplici alle più complesse, che permettono di automatizzare il flusso di lavoro, velocizzarlo e renderlo più preciso.

    Inoltre, la IA, inserita in rete e collegata al mondo reale, può sostituire alcuni lavori intellettuali, anche se, come afferma John Leonard, docente di ingegneria del MIT, «le macchine non potranno sostituire del tutto chi lavora, perché non si può fare a meno di chi guida». Ma chi sa? Davvero siamo sempre noi a guidare?

    L’automatizzazione di processi ad elevata varianza rappresenta un passo ulteriore nella direzione della robotica associata alla IA: interattività avanzata, capacità decisionali, possibilità di adattamento e di autoapprendimento consentiranno alle macchine di rispondere alle “variazioni ambientali”.

    Il produttore tedesco di robot Kuka ha concettualizzato in un video promozionale la sfida che l’IA dovrà affrontare: quando un robot industriale potrà battere il campione umano in un gioco a elevata interazione come il tennis tavolo, avrà davvero inizio una nuova rivoluzione industriale. E non sorprenda che il modello di riferimento sia il gioco, i cui schemi comportamentali risultano comunque più liberi e imprevedibili di quelli relativi al perseguimento di obiettivi specifici e formalizzabili.

    Abbiamo definito in varie occasioni “Industria 5.0” la fase successiva alla quarta rivoluzione industriale, quella dei sistemi cibernetici, intesa come paradigma evolutivo verso il dialogo uomo-macchina, orientato alla personalizzazione della offerta, che sembra connotare la evoluzione ulteriore della relazione impresa/mercato.

    Il percorso del Sistema Italia verso Industria 4.0 si è appena iniziato e una sua estesa applicazione appare ancora lontana. I dati positivi emergono sul fronte dell’adozione di singole tecnologie 4.0, stimolate dal piano di ammortamenti, crediti d’imposta per R&S, agevolazioni per gli investimenti in startup.

    Per altro, non sono mancate le disfunzioni, a conferma di una persistente immaturità industriale, anche sul piano deontologico: per esempio, investimenti effettuati soltanto per sfruttare gli incentivi. Tuttavia il livello di conoscenza della rivoluzione digitale è aumentato e forse il ritardo di Industria 4.0 potrebbe agevolare Industria 5.0.

    Ormai da molti Industria 5.0 viene vista come un salto qualitativo della informatica interconnessa di Industria 4.0, che, combinando diverse tecnologie “da lontano” (nano e bio-tecnologie, sensoristica, IOT, realtà virtuale, cloud, mobile), realizza nuove soluzioni produttive flessibili e interattive.

    La IA costituisce una grande sfida da cui può derivare una maggiore efficienza e opportunità espansive, o una pericolosa confusione organizzativa e produttiva. Non a caso, paradossalmente, alcune imprese potenziano il ricorso al lavoro umano per alimentare programmi generalmente promossi come sistemi di IA.

    Una recente ricerca di Julie Shah, responsabile del gruppo Interactive Robotics Group al MIT, ha scoperto che le persone hanno difficoltà a lavorare con i robot e tendono di conseguenza ad accollarsi troppe operazioni. Una tendenza che compromette l’efficienza complessiva, ritardando la innovazione. 

    Comunque non si può tornare indietro. Non a caso, ci si chiede spesso se le nuove tecnologie ruberanno il lavoro agli esseri umani, ma non è la prima volta nella storia che l’avvento di nuove tecnologie spinge a formulare previsioni catastrofiche sull’occupazione, anche se, a conti fatti, il saldo si è sempre dimostrato positivo.

    Grazie all’IA i ricavi delle imprese potrebbero crescere del 40 per cento entro il 2020, investendo in una efficace cooperazione tra uomo e macchina. Se questa crescita si concretizzasse, anche l’occupazione ne beneficerebbe, registrando un aumento del 10 per cento.

    Tuttavia, non mancano previsioni meno ottimistiche. Qualche anno fa Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’università di Oxford, in The future of employment, affermavano che il 47 per cento dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarebbe stato ad alto rischio a causa dell’automazione nel giro di un ventennio.

    Lo scorso anno, il World Economic Forum, in The future of jobs, ipotizzava che in 13 Paesi industrializzati (fra i quali l’Italia) i posti persi fra 2015 e 2020 potrebbero superare i 5 milioni, provocando tensioni sociali sia a livello aziendale, sia a livello nazionale.

    Inoltre, anche se, secondo l’Unione Europea, entro il 2020 potrebbe esserci bisogno di 825mila addetti nel settore ICT, un’indagine più recente della McKinsey ritiene che 1,2 miliardi di posti di lavoro siano sostituibili in tutto o in parte dalla IA, solo 700 milioni dei quali in India e in Cina.

    Si pensa, infatti, che per il 60 per cento di tutti i lavori sia automatizzabile almeno il 30 per cento delle funzioni. Sebbene i lavori totalmente automatizzabili non superino il 5 per cento, i lavoratori che dovranno fare i conti con l’automazione sarebbero compresi tra il 49 per cento e il 51 per cento in Italia, cioè 11 milioni di persone.

    Altre ricerche inquadrano diversamente il fenomeno: Gartner, uno dei più autorevoli osservatori statunitensi di tecnologia, sostiene, forse ottimisticamente, che tra due anni per la prima volta l’IA comincerà a creare più posti di quanti ne distrugga: 2,3 milioni contro 1,8.

    Per il momento, comunque, sembrerebbe che gli addetti umani possano stare tranquilli: lo scorso anno una ricerca condotta su mille manager di nove Paesi: Australia, Francia, Germania, India, Italia, Olanda, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti, ha evidenziato che, con l’IA, 4 imprese su 5 hanno creato nuovi posti di lavoro.

    Oltre i tre quinti delle imprese che hanno implementato su larga scala l’IA affermano che non vi è stata perdita di posti di lavoro, perché l’IA ottimizza lo svolgimento di attività ripetitive, eliminando gli sprechi, e che le macchine intelligenti possono coesistere con la forza lavoro tradizionale.

    Ovviamente, il lavoro si sposterà da un settore all’altro, da una competenza all’altra, ma il computo globale potrebbe restare lo stesso, per l’accresciuta produttività aziendale. Tuttavia muteranno le convenienze geografiche perché, automatizzandosi, le imprese potrebbero riportare in patria produzioni in cui il lavoro conta meno. 

    Ma con questa considerazione si aprono ulteriori scenari di politica economica locale e globale, su cui converrà tornare in altra occasione.

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