Il World Wide Web qualche giorno fa ha compiuto trent’anni e molti ne hanno festeggiato l’anniversario, perché ormai nessuno potrebbe farne a meno; ma le congratulazioni vanno di pari passo con le preoccupazioni.
di Alessandro Ovi e Gian Piero Jacobelli
Trenta anni fa nasce il WWW, una sigla che, come tutte le sigle, ha soprattutto un valore autoreferenziale. In altre parole, non ha bisogno di spiegazioni, anche perché, se dall’acronimo si passa al nome per intero, il Word Wide Web, si rischia qualche profonda delusione.
Grazie al Web siamo in grado di usufruire dei contenuti su Internet. Ci sono molti buoni motivi, dunque, per ricordare quel 12 marzo 1989 in cui Tim Berrners-Lee ne presentò il protocollo al CERN di Ginevra, dove aveva il compito di gestire la grande mole di informazioni che si scambiavano gli scienziati.
Allora il Web, per la verità, si chiamava Mesh, ma quando un paio di anni dopo, nel 1991, Berners-Lee rese pubblica la sua invenzione, aveva già cambiato nome e stava per attraversare l’oceano, inaugurando una prima testa di ponte a Stanford, negli Stati Uniti.
Nell’aprile 1993 il CERN annunciò che la tecnologia WWW sarebbe stata liberalizzata, senza bisogno di pagare corrispettivi o diritti. L’idea di Berners-Lee, infatti, era quella di costruire un network decentralizzato, senza padroni, libero e gratuito, che le persone potessero usare per scambiare informazioni, collaborare alla risoluzione di problemi e portare avanti collettivamente nuove idee.
Questa è la faccia “buona” del WWW, di cui Papa Francesco ha dichiarato su YouTube che si tratta di “un dono di Dio” per il bene che fa alla comunicazione, alla crescita, alla conoscenza. Per la verità Papa Francesco si riferiva a Internet, ma abbiamo già detto che senza il WWW, Internet sarebbe praticamente inutile.
Il quadro, però, cambia radicalmente se invece dell’acronimo, parliamo di World Wide Web, perché, nonostante si dichiari programmaticamente come qualcosa che è a disposizione di tutto il mondo, in realtà lascia ancora senza collegamenti quasi una metà del mondo e per l’altra metà genera sempre più spesso il timore della violazione della riservatezza e dei diritti umani fondamentali.
Negli ultimi vent’anni, infatti, il WWW è cambiato sotto i nostri occhi, soprattutto a causa della massiccia colonizzazione da parte di enormi aziende digitali, che operano quasi senza controlli sul fronte della privacy e della sicurezza dei dati.
Lo stesso Berners-Lee, il quale oggi dirige il Consorzio del World Wide Web, si preoccupa del potere eccessivo acquisito da Google e Facebook, affermando qualche mese fa, durante il Web Summit di Lisbona, che il WWW può trasformarsi in una vera e propria “arma impropria”: «Noi che siamo online vediamo minacciati i nostri diritti e la nostra libertà. Abbiamo bisogno di una normativa che stabilisca responsabilità chiare e severe, vincolante per quanti hanno il potere di rendere Internet un posto migliore».
Berners-Lee non si è limitato a denunciare un disagio e a lanciare un allarme, ma ha ribadito che, quando qualcosa diventa essenziale per una vita degna di essere vissuta, questo qualcosa non può essere lasciato alla mera logica del mercato: «Abbiamo la responsabilità di assicurarci che il Web sia riconosciuto come un diritto umano e costruito per il bene pubblico». Al contrario, «il divario tra chi è online e chi è offline aumenta. Oggi la metà del mondo è online. È più che mai urgente assicurare che l’altra metà non sia lasciata indietro e che ognuno contribuisca a fare crescere la Rete nella prospettiva di una maggiore eguaglianza delle opportunità e della creatività».
Per concludere, il WWW, da strumento per distribuire diritti, diventa esso stesso un diritto umano, tanto più importante quanto più strategico e diffuso, sia pure solo parzialmente. Perciò bisogna operare con decisione e con forza, combattendo per una sua disponibilità universale e, allo stesso tempo, per evitare i molti rischi che può generare.