Nel fascicolo primaverile di MIT Technology Review USA vengono illustrate le tecnologie più innovative, indicate da Bill Gates, il quale ha orientato le sue scelte sulla utilità per gli individui e per le collettività, anche se a farla da padrona resta comunque la Intelligenza Artificiale.
di Gian Piero Jacobelli
Sarà che sta esagerando, sarà che non ce la fa più, la innovazione, non soltanto quella tecnologica, sta attraversando un periodo di riflessione, o forse una pausa per riprendere fiato e ripartire “più bella e più superba che pria”, come avrebbe detto il grande Petrolini.
Questa è la sensazione che si prova sfogliando l’ultimo fascicolo di MIT Technology Review USA (marzo-aprile 2019), dedicato alle 10 tecnologie che promettono di avere effetti dirompenti.
Ogni anno la rivista statunitense, a cui noi stessi attingiamo per ormai antica filiazione, dedica il fascicolo di primavera a uno sguardo panoramico sugli attuali progressi tecnologici, per cui questa ricorrenza, che si ripete dal 2001, tende ad assumere anche il senso di un riscontro critico: quello di segnalare quasi paradossalmente quei fronti avanzati della ricerca che sono però destinati a venire sostituiti, l’anno dopo, da altri fronti ancora più avanzati, in una talvolta ossessiva rincorsa verso i mezzi piuttosto che verso i fini.
Quest’anno, tuttavia, le cose sembrano stare diversamente, prendere un’altra piega, come scrive il direttore responsabile della rivista, Gideon Lichfield, perché la scelta è stata demandata a un autentico protagonista della innovazione, Bill Gates, e perché, considerate le inclinazioni umanistiche e umanitarie del personaggio, questa scelta si è orientata non tanto, come in passato, sulle tecnologie in grado di prolungare la vita, ma sulle tecnologie che questa vita potranno rendere più confortevole e più degna di venire vissuta.
La scelta di Gates si è focalizzata su tre aree principali: il mutamento climatico, la cura della salute e, ovviamente, la Intelligenza Artificiale. Come scrive lo stesso Gates, introducendo le proposte tecnologiche da lui selezionate, «la mia selezione include nuovi straordinari dispositivi che un giorno potranno salvare vite umane, da semplici esami del sangue in grado di prevedere le nascite premature a servizi igienici in grado di distruggere gli agenti patogeni».
«Sono convinto», prosegue Gates, «che anche le altre tecnologie selezionate miglioreranno profondamente le nostre vite. Le apparecchiature indossabili a scopo sanitario, come l’ECG da polso, avvertiranno i pazienti cardiopatici di problemi imminenti, mentre altre permetteranno ai diabetici non solo di monitorare i livelli di glucosio, ma anche di gestire la loro malattia. I reattori nucleari avanzati potrebbero fornire al mondo energia sana e sicura, perché priva di emissioni di carbonio. Una delle mie scelte ci consente persino di dare una occhiata su un futuro in cui l’obiettivo primario della società sia la possibilità di realizzarsi personalmente. Tra le molte altre applicazioni, gli operatori guidati dalla IA potrebbero rendere più gestibile la posta elettronica: qualcosa che potrebbe sembrare banale finché non si consideri quali e quante possibilità si apriranno quando ognuno avrà più tempo libero».
Non è difficile cogliere nelle parole di Gates un modo diverso di guardare alla tecnologia, non più fine a se stessa, a un incremento meramente autoreferenziale, ma finalizzata ai concreti bisogni di donne e uomini.
Più difficile è capire se questa impostazione, del tutto condivisibile sul piano etico, anche se non di facile realizzazione, risponda a una sorta di senso di colpa del capitalismo contemporaneo nei confronti delle crescenti diseguaglianze interne e internazionali, ovvero se risponda a un momento di pausa e magari di riflessione nell’incessante progresso tecnologico, come sembrerebbero indicare alcune perplessità espresse dallo stesso Gates in merito ai ritardi che molte tecnologie essenziali, in particolare quelle energetiche, manifestano in relazione alle aspettative a suo tempo suscitate.
Di tutt’altra natura sono invece, le considerazioni che concernono la Intelligenza Artificiale e quello che David Rotman, in conclusione di questo fascicolo di MIT Technology Review USA, chiama il “momento AlphaGo”. Il riferimento è al famoso gioco originario dalla Cina, che il software elaborato da DeepMind ha imparato a giocare, vincendo ogni concorrente possibile, umano e non umano, senza che prima gli venisse fornita alcuna conoscenza preliminare, ma semplicemente sfidando se stesso, vale a dire imparando dalla propria diretta esperienza.
Come giustamente osserva Rotman, parlando di Intelligenza Artificiale non si tratta più di automobili a guida automatica o di riconoscimento facciale, ma di un nuovo modo, assai più efficiente, di fare ricerca. In altre parole, di una vera e propria rivoluzione non soltanto scientifica e tecnologica, ma anche epistemologica e logistica.
Ma il problema, conclusivamente, resta sempre quello: «Può una macchina essere veramente creativa?».
C’è chi risponde di sì, in forza del fatto che una macchina capace di programmare se stessa può fare qualcosa di veramente inatteso persino per chi la ha progettata e costruita.
C’è chi risponde di no, se non altro perché, come è noto, nessun sistema può autodescriversi compiutamente e perché la creatività si risolve comunque in un fenomeno relazionale che comporta le facoltà umane di distinguere un prima e un dopo, un utile e un disutile, un bello e un brutto.
Insomma, diremmo noi, perché non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.