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    Crisi identitarie e pratiche creative

    Il disorientamento della cultura contemporanea, moderna o post-moderna che la si voglia definire, si esprime anche nella sistematica confusione tra il corpo, la carne e il fantasma: tre concetti fondamentali e critici per ogni processo di identificazione personale, a cavallo tra il sapere e il fare.

    di Gian Piero Jacobelli 27-02-20

    A volte il caso ci fornisce delle buone idee, anche se spesso il caso lo creiamo noi stessi, in base alla nostra esperienza, ai nostri interessi, alla nostra disponibilità a vedere oltre il caso stesso. 

    Ci riferiamo in particolare a qualche “occasionale” accostamento di libri disparati, che soltanto una coincidenza di pubblicazione o la esigenza di esposizione sui tavoli di qualche libreria hanno messo insieme. Accostando parole, concetti, immagini altrimenti eterogenei. Suggerendo associazioni lessicali e concettuali apparentemente non privi di sorprendenti punti di vista su quanto si agita nella riflessione contemporanea. 

    Questo breve preambolo vuole semplicemente descrivere le circostanze in cui ci si è presentato visivamente uno dei cruciali nodi problematici del nostro tempo, che molto ha a che fare con le rappresentazioni del mondo oggi prevalenti, da un punto di vista sia conoscitivo, sia operativo, vale a dire secondo la scienza e la tecnologia. 

    Potremmo definirlo come il nodo della forma e del senso, una sorta di nodo leonardesco con molte andate e ritorni, sovrapposizioni e intrichi. In altre parole, la nostra cultura ha sempre e comunque bisogno di una forma, aggregata o disaggregata, di un albero o di un bosco, per non perdersi in un mondo informe e privo di senso. 

    Proprio nei giorni scorsi, questo nodo ha improvvisamente annodato due libri che apparentemente più diversi non potrebbero essere, ma che invece, per contrasto o per accordo, presentano non pochi parallelismi in ordine ad alcuni interessi prioritari della cultura contemporanea. 

    Si tratta, in primo luogo, di Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro (Feltrinelli 2020), in cui lo psichiatra e psicologo Giovanni Stanghellini si sofferma sul problema della identità corporea, in un orizzonte, quello della mediazione a oltranza, iconica o anche semplicemente indiziaria, in cui l’essere qualcuno si risolve sempre più spesso nel vedersi qualcuno e questo vedersi, a sua volta, si risolve nel vedersi in uno schermo. 

    Che corpo è quello che, nostro o altrui, vediamo o rivediamo in uno schermo, sia quello fotografico o quello degli ormai molteplici dispositivi digitali? Stanghellini risponde in maniera chiara e distinta che si tratta di un corpo disincarnato, di un corpo in cui la vista funge da Coltello di Delfo, l’aristotelico strumento buono per tutti gli usi, ma anche lo strumento che sottrae tutti questi usi alle loro pratiche specifiche e consapevoli. 

    “Questo affiorare del corpo come effetto dello sguardo dell’altro”, scrive Stanghellini, “ha carattere iperbolico nella coscienza postmoderna”, aggiungendo che questa pornografica “dissolvenza del corpo” come “luogo originario dell’identità” sottrae la stessa identità al suo contesto, la decontestualizza, la rende buona per tutte le stagioni: vale a dire, contrariamente a Thomas More per il quale la espressione è stata coniata, non buona per nessun tempo e nessuno spazio possibile.

    Stanghellini conclude che “siamo testimoni della dissolvenza del corpo in quanto carne. Oppure, che è poi la stessa cosa, abbiamo assistito all’iniezione di un fantasma del corpo nei circuiti del consumo”. Di conseguenza, le persone sono state private di una concreta adesione alla realtà, per cui la “consustanzialità con la provincia del mondo a cui si inerisce e si apparitene è stato sostituita da un esperanto del corpo – artificiale, totalitario, impersonale”. 

    La sempre più precaria ed enigmatica relazione tra il ‘corpo’ e la ‘carne’ acquisisce una diversa e più generale portata se ci lasciamo suggestionare dalla analogia tra quel fantasma che si perde nei “circuiti del consumo” e quei fantasmi che fanno bella mostra di sé sulla copertina di un secondo libro adiacente al primo, Fantasmi. Una storia di paura (il Saggiatore 2020), in cui la scrittrice e sceneggiatrice Lisa Morton ripercorre la storia della immaginazione “paranormale”, dalle pitture paleolitiche alle fantasie orientali, dalle caricature latinoamericane della morte alla odierna cultura popolare di Halloween e dei serial cinematografici e televisivi. 

    Anche in questo caso il fantasma, per dirsi tale, “dev’essere visto, sentito o comunque percepito in modo tangibile da un essere vivente”. Se dunque Stanghellini a proposito del fantasma parla di un corpo senza carne, Morton ne parla come di una carne senza corpo. Rendendo manifesta, nel loro ‘combinato disposto’, la ambiguità della relazione tra corpo e carne, in cui talvolta il corpo è la forma visibile della carne e talvolta la carne è la forma invisibile del corpo. Fungendo quindi da refugium peccatorum di quanti non si sentono più in armonia con se stessi e aspirano a rifondere una forma vissuta come imperfetta in un informe e impraticabile ‘vivere prima’. 

    Tra Platone, il quale pensava al corpo come “carne senza vita”, e Maurice Merleau-Ponty, il quale pensava alla carne come metafora del desiderio, vale a dire di una assenza costitutiva, sembra necessario prescindere da qualsiasi ipostasi ontologica, vale a dire da qualcosa che risulti sempre in alternativa a qualcos’altro. 

    Lo scopo resta quello di recuperare il senso di sé, la propria identità, in quel “pensiero delle pratiche” di cui parla il filosofo Carlo Sini, superando di un balzo la contrapposizione tra l’essere e il non essere, per affidarsi alla concretezza di un fare in cui confluiscono e al limite coincidono il ‘sapere’ scientifico e il ‘fare’ tecnologico.

    Perché la forma, qualsiasi forma, non deriva dall’informe, ma inevitabilmente da altre forme, variamente destrutturate e ristrutturate, in forza – altra coppia dialetticamente fondamentale quella di ‘forma’ e ‘forza’ – di una creatività incessante, in cui si associano e al limite coincidono ‘creatore’ e ‘creatura’.

    (gv)

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