Prevedere il futuro fa bene o male al presente? L’interrogativo riemerge in maniera incalzante e dettagliata nel fascicolo che MIT Technology Review USA ha dedicato alle 10 tecnologie che sembrano in grado di rivoluzionare le nostre possibilità di operare sul mondo e su noi stessi.
di Gian Piero Jacobelli
Un appuntamento di MIT Technology Review USA si ripete ogni anno: quello con le 10 tecnologie “dirompenti”, che promettono di cambiare radicalmente le situazioni e lo “stato dell’arte” nei diversi settori della ricerca, della industria, della stessa convivenza.
Questo appuntamento nella sua più recente realizzazione redazionale ha assunto un senso peculiare, privo di quell’enfasi sulle “magnifiche sorti e progressive” della tecnologia, che in passato sembrava mutuare lo stile delle grandi Expo universali dove la “gloria della tecnica” oltre a quella della marca la fa da padrona.
Quest’anno il tono generale suona molto più problematico, quasi che tante siano le promesse delle tecnologie prescelte, ma ancora poche le certezze. Segno, forse, che qualcosa sta cambiando davvero e che il desiderio di guardare lontano deve fare comunque i conti con la incertezza implicita in ogni lontananza. Soprattutto quando resta ancora nascosta nelle nebbie di un paesaggio/passaggio che avvertiamo tanto cruciale, quanto enigmatico.
Basta scorrere gli argomenti in questione per rendersi conto che comportano tutti, o quasi, la necessità di fare il passo più lungo nella gamba, nei laboratori, sulla superficie terrestre e nello spazio, per proiettarsi in un futuro ancora in nuce: un Internet inattaccabile, basato sulla fisica quantistica, in grado di garantire la sicurezza della comunicazioni; una medicina personalizzata per curare le cosiddette malattie rare; una moneta digitale che possa prescindere dalle mediazioni del sistema finanziario; nuovi medicinali capaci di combattere le malattie dovute all’invecchiamento; l’impiego della Intelligenza Artificiale per la individuazione di nuove molecole medicinali; la realizzazione di sciami di satelliti di comunicazione; un computer quantistico per risolvere problemi oggi irrisolvibili; ancora la Intelligenza Artificiale al servizio degli attuali terminali telefonici; una tecnica per migliorare la tutela della privacy dei dati sensibili; nuovi metodi per valutare la incidenza del mutamento climatico sui fenomeni meteorologici.
Come si vede, si tratta più di ambiti e di orizzonti tecnologici già noti che di specifiche innovazioni sino a ieri imprevedibili e anche questo è un modo per trarre incertezze dalle certezze, per comprendere come il cambiamento sia sempre frutto della dialettica tra probabilità e possibilità, tra aspettative e preoccupazioni.
Non a caso, la novità più significativa del fascicolo di marzo-aprile di MIT Technology Review USA, a cui stiamo facendo riferimento e che in parte si può leggere in traduzione italiana anche nella nostra Home Page, risiede nelle riflessioni di contorno sulle motivazioni e sulle modalità della previsione del futuro.
Ci sia qui consentito una rievocazione personale a quei mitici anni Sessanta in cui noi stessi avemmo la precoce opportunità di contribuire alla presentazione delle nuove metodologie previsionali in alcune importanti riviste del tempo, dalla prestigiosa “Civiltà delle Macchine” a “Futuribili”, che riprendeva la testata francese di “Futuribles”, creata nel 1960 da Bertrand de Jouvenel.
Allora, non diversamente da oggi, il futuro si palesava in una triplice accezione: come qualcosa da realizzare, come qualcosa da evitare, come qualcosa raccontare; vale a dire come orientamento alla decisione, come avvertenza dei rischi possibili, per esempio nelle celebri analisi del Club di Roma e di Aurelio Peccei, come fantascienza, che già contava precedenti illustri nell’Ottocento.
Il senso generale delle predette riflessioni raccolte da MIT Technology Review USA viene eloquentemente riassunto nel titolo dell’articolo introduttivo di David Rotman: “La fine delle grandi predizioni”, dove si rileva come ancora manchi una nuova Legge di Moore, che nel 1965 aveva emblematicamente previsto il raddoppio annuale dei componenti presenti in un circuito integrato. Oggi, conclude Rotman, viviamo piuttosto nel “tempo del panico”.
Si tratta, va chiarito, di un panico che presenta una duplice, contrastante motivazione: del non sapere e del restare irretiti in ciò che già sappiamo. La stessa previsione – si legge nelle pagine conclusive – rischia di restringere lo spettro delle alternative possibili; di escludere l’imprevedibile, come rileva Inez Fung, meteorologa di Berkeley; di anticipare in maniera incongrua le verifiche, rischiando così di mancare il bersaglio; di trascurare quanto l’attuale sistema di valori considera trascurabile e che invece potrebbe rivelarsi decisivo.
Non a caso le conclusioni dei numerosi e autorevoli testimoni di questo incerto futuro sembrano convergere su un riferimento personalistico: sulla “persona”, le cui esigenze, i cui interessi, le cui capacità di prescindere dal presente possono costituire la misura stessa di un futuro in cui non si debba rischiare di perdere il proprio futuro.
(gv)