L’insigne semiologo e filosofo è deceduto oggi nella sua abitazione presso Rimini, dove era nato nel 1939: un gravissimo lutto per la cultura italiana ed europea, ma anche per la nostra rivista, che ha avuto il privilegio di pubblicare in passato le riflessioni di uno studioso tanto creativo quanto incisivo, al quale va riconosciuto un ruolo fondamentale nell’intero orizzonte della ricerca culturale.
di Gian Piero Jacobelli
Circa tre mesi fa, proprio all’inizio del distanziamento coatto, abbiamo pubblicato un articolo dedicato ai rischi della tecnologia e in particolare ai rischi nucleari. In quell’articolo ricordavamo un intervento sulla nostra rivista di Paolo Fabbri, il quale alcuni anni fa aveva riproposto, con una sorprendente risonanza mondiale, una sua vecchia proposta in merito alle possibili soluzioni “semiotiche” per il problema delle scorie nucleari: un argomento apparentemente lontano dai suoi interessi prevalenti, che confermava la sconfinata curiosità e competenza di un impareggiabile intellettuale a tutto tondo.
In quell’intervento su “Raycat”, il “gatto radioattivo” in grado di cambiare colore in presenza di radiazioni, come un contatore Geiger animato, le considerazioni sulla “eredità tecnologica” si alternavano, con una misurata ironia che non mancava mai nella scrittura di Fabbri, con le considerazioni sulla “eredità culturale”.
«Prima di progettare un sistema di segnalazione per il futuro, sembra utile guardare con occhio critico i segni già esistenti. La semiologia, da Peirce a Greimas, ci fornisce pratici strumenti per studiare il loro statuto. Per cominciare si possono distinguere i segni di carattere astratto (simboli) che sono comprensibili solo all’interno di una data società, dai segni figurativi (icone), leggibili grazie alla loro somiglianza con elementi dell’esperienza quotidiana. Solo la seconda varietà di segni sarebbe utile al nostro scopo, nei termini di una sagoma antropomorfica in azione o un semplice oggetto.
In questo caso ci si domanda quale relazione si stabilisca tra l’oggetto rappresentato e il programma in questione. Esistono, infatti, numerosi esempi in cui il segno non rappresenta l’oggetto mirato. Un segno composto da coltello e forchetta indica la possibilità di consumare un pasto e non quella di acquistare quegli attrezzi. La figura di un cranio decorato da tibie incrociate comunica la fine certa di chi penetra nel luogo così marcato. Ma in una diversa cultura l’associazione di coltello e forchetta potrebbe anche indicare che chi entra verrà mangiato e il cranio segnalare un rivenditore di ossa.
Inoltre, la natura attrattiva o repulsiva di un oggetto è difficile da trasmettere in quanto dipende dalla nozione di buono o cattivo gusto culturalmente radicata nel soggetto. Per contro, desiderio, piacere, paura o disgusto vengono correntemente manifestati all’osservatore tramite gesti o mimiche più direttamente in relazione con la morfologia umana che con abitudini culturali e sono quindi meno suscettibili di variare secondo le mode».
Questa sostanziale relatività culturale, che concerne sia lo spazio, sia il tempo, Fabbri percepiva non con la preoccupazione conoscitiva di molti studiosi, ma con la incessante curiosità di chi, quando cambia l’ordine dei fattori, spera sempre che cambi anche il prodotto.
In proposito, si può leggere nel suo sito una delle sue più recenti riflessioni in merito alla “prossemica”, lo studio delle vicinanze e delle lontananze sociali, in cui con analoga e sottile ironia, Fabbri segnalava le “curiose” incongruenze dei comportamenti umani.
«Allo stesso modo delle coordinate temporali (il tempo parla, secondo i ritmi degli orari, il lavoro e i pasti, la festa e il sonno, i nostri progressi e ritardi), la dimensione spaziale è rigorosamente strutturata (discorsi spaziali) e deriva da modelli e regole apprese e compiute in modo perfettamente inconscio, ma capace – per coloro che superano la motivazione naturalizzante della propria cultura – di un’evidenza eloquente. Le distanze intrapersonali, gli orientamenti spaziali ci parlano: ma dal momento che li percepiamo sempre avvolti e quasi camuffati all’interno di complessi atti semici, siamo portati a ridurli a fattori esterni.
Molti elementi fanno parte della nostra esperienza quotidiana: la distanza rispettosa, la vicinanza affettuosa (ma anche la vicinanza aggressiva e la distanza indifferente o sprezzante), la gerarchia delle procedure e dei luoghi (il capotavola, la mia poltrona, la precedenza alle donne, ai vecchi, ai “superiori”). La disposizione spaziale della sala d’attesa di una stazione è semplicemente un indice sociografico. Gli estranei mantengono tra loro una “certa” distanza, se i posti sono sufficienti, i posti che occupano saranno separati o anche distanti. Una famiglia, al contrario, tende a raggrupparsi, i bambini sulle ginocchia degli adulti. E tutto questo non è così diverso dalla disposizione degli uccelli sui fili del telefono. L’etologia ci ha fornito tanto per gli invertebrati quanto per i mammiferi sorprendenti paralleli.
E ancora: tra estranei a stretto contatto, il back-to-back è più tollerabile del contatto faccia a faccia o side-by-side. Il contatto visivo sembra obbligarci a interagire: pensiamo alle reti di comunicazione che si stabiliscono all’interno dei microgruppi. Nella metropolitana, dove il contatto faccia a faccia è forzato, riduciamo l’inconveniente distogliendo lo sguardo: tutti guardano altrove!».
Circa quarant’anni dividono questi due testi, ma il sorriso di Paolo Fabbri resta lo stesso: un sorriso frutto di una straordinaria intelligenza delle parole e delle cose, ma anche di una sensibile e partecipe visione del mondo. Un sorriso che a noi tutti mancherà moltissimo.
(gv)