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    Se Atene e Sparta piangono, forse sorriderà Tebe

    Il Coronavirus, l’ospite inatteso come è stato definito, sta diventando una cartina di tornasole dei partiti presi e delle carenze programmatiche sia della politica sia della scienza, con riferimento alle scelte spesso discutibili che riguardano le attività formative, assistenziali, infrastrutturali e di ricerca nel nostro Paese.

    di Gian Piero Jacobelli

    In un editoriale di qualche settimana fa ci siamo soffermati, con riferimento alla presente, speriamo ormai non troppo presente, situazione epidemiologica, sulle difficoltà e le incertezze che tanto i politici, quanto gli scienziati hanno manifestato nel dirci cosa stia succedendo e cosa si possa o si debba fare per porvi riparo.

    Insomma, scrivevamo, se Atene piange, Sparte non ride: se la politica non può nascondere gravi carenze conoscitive e decisionali, anche la scienza non appare esente da difetti gnoseologici e deontologici. 

    Non si tratta più delle vecchie e inani polemiche sulle “due culture”, la cultura umanistica e la cultura scientifica.
    Vecchie e inani perché il problema non risiede in una opzione epistemologica, dal momento che la conoscenza non conosce confini e nella conoscenza tutto si tiene. Se mai risiede in una opzione metodologica, vale a dire nel diverso approccio alla realtà, che potremmo forse troppo sommariamente individuare, nel caso della cultura scientifica, in una procedura di “falsificazione” e, nel caso della cultura umanistica, in una procedura di “veridizione”. Nel primo caso, in una “verità” sempre da disfare; nel secondo caso, in una verità sempre da rifare. 

    Ovviamente, si tratta anche della maggiore o minore capacità di tradurre i procedimenti conoscitivi in pertinenti procedimenti comunicativi e operativi, che aiutino anche la gente comune a orientarsi nelle necessità del momento.

    A dimostrazione che non si parla di un argomento astratto e teorico, ma concreto e pratico, non sorprende che in questi ultimi giorni anche la grande stampa si stia occupando dell’argomento, per quanto su posizioni talvolta discordi. Il 7 giugno lo scrittore e critico letterario Paolo Di Stefano, in un tanto conciso, quanto preciso corsivo sul “Corriere della Sera”, dopo avere osservato come, nonostante tutto, il Covid 19 sembrasse inizialmente una preziosa opportunità, sia per la politica sia per la scienza, di recuperare credibilità e fiducia nei confronti della pubblica opinione, rilevava amaramente che «è bastato che il nebbione della grande paura si diradasse» per ritrovarsi nuovamente sulle posizioni di una retroguardia tanto pretenziosa quanto inaffidabile. 

    In effetti, della politica si torna a lamentare una incompetente invadenza, mentre della scienza si critica una competenza inficiata dalle «divergenze bizantine» dei vari Virologi ed Epidemiologi (che Di Stefano scrive con la maiuscola, per sottolinearne le pretese retoriche piuttosto che scientifiche).

    Un potenziale patrimonio di reputazione – per adottare un concetto sociologicamente ed economicamente importante – «si è disperso in pochi giorni nelle quotidiane baruffe chiozzotte televisive, gigantesche commedie goldoniane dove ciascuno dei megaluminari galattici si sveglia al mattino e ne spara una, aizzando le furie dell’altro collega ipermegasupergalattico pronto a sparare la sua». Proprio in questi giorni, per fare solo un esempio, è esplosa una cruciale polemica sulle dichiarazioni dell’OMS in merito alla maggiore o minore contagiosità degli asintomatici.

    Anche Stefano Folli nel suo quotidiano commento su “la Repubblica”, in merito al cosiddetto Rapporto Colao ha ribadito che «manca una cornice di riferimento e un’idea generale di dove collocare gli infiniti spunti che gli esperti hanno messo sul tavolo: spesso ripescando suggestioni che hanno un’ovvia dimensione politica». Per cui la politica, uscita dalla porta alla ricerca di un qualche supporto più competente, finisce per rientrare dalla finestra di quanti, consulenti esperti scienziati, la competenza hanno sempre rivendicato, per ritrovarsi tuttavia, in una paradossale eterogenesi dei fini, messi ugualmente alla porta.

    Se tanto Sparta, la forza del potere, quanto Atene, la forza del sapere, stanno mostrando la corda, non resta che sperare nella fantasia creativa di Tebe, la mitica e misteriosa città greca, patria di Edipo e di Dioniso, vale a dire della tragedia e della commedia.

    Ai tempi dell’altrettanto mitico Sessantotto, si invocava la “fantasia al potere”, per trovare nuove soluzioni ai vecchi problemi. Non succede spesso, ma qualche volta succede anche oggi di scorgere uno scatto di consapevolezza, di determinazione, soprattutto di visione. E succede che la scienza, al di là delle funzioni ancillari che le vengono spesso attribuite, riesca a risvegliare l’entusiasmo per la possibilità di cambiare, di guardare al futuro con rinnovate speranze e aspettative. 

    Nonostante la scienza si trovi spesso costretta a rincorrere le cattive notizie del male e del malessere che si aggirano nel mondo, non manca qualche momento forte, che anche la nostra rivista cerca di registrare e valorizzare, dal microcosmo delle strutture vitali al macrocosmo dello spazio lontano: in altre parole, quanto ci consente di spostare il nostro punto di vista al di fuori di un mondo altrimenti sempre più cieco e sordo.

    Nella prospettiva di una creatività che non appartiene in esclusiva né alla politica né alla scienza, ma se mai alla “letteratura”, vorremmo concludere con un riferimento a James Graham Ballard. In una profetica raccolta di racconti intitolata Mitologie del futuro prossimo e pubblicata da “Urania” nel 1982, il grande scrittore di fantascienza metteva in scena un mondo in cui ogni essere umano vive in isolamento dalla nascita e interagice unicamente tramite videocamere e schermi. Concludendo che con gli schermi e con la loro cogente inerzia ci dobbiamo confrontare anche dove non si vedono schermi: «Viviamo in un mondo dominato da finzioni di ogni tipo: merchandising di massa, pubblicità, politica gestita come fosse un ramo della pubblicità, la traduzione istantanea di scienza e tecnologia in immagini popolari».

    A due generazioni di distanza la previsione di questo futuro radicalmente depersonalizzato trova sconcertanti riscontri nelle attuali esperienze di una convivenza sempre più mediata e inevitabilmente “a distanza”. Ma al tempo stesso lascia intendere come, quando le condizioni vincolanti in cui ci troviamo inconsapevolmente a vivere, diventano forzatamente consapevoli, riemerge la possibilità di fare leva su questi stessi vincoli per recuperare il senso di una vita che si riapre al futuro grazie alla prevalenza dei valori della relazione su quelli della comunicazione: «Solo a distanza si poteva trovare quell’autentica vicinanza con un altro essere umano, che con grazia poteva trasformarsi in amore».

    In proposito, tornando a noi, potremmo anche parlare di un possibile ritorno della trasgressiva innovatività del tebano Dioniso rispetto agli eccessi apollinei delle tradizionali e al momento deludenti istanze del sapere e del potere.

    (gv)

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