I dispositivi che imitano le proprietà di esemplari esistenti in naura
di Massimo Negrotti e Aldo Celeschi
Nel giugno di quest’anno l’intelligenza artificiale (IA) compie i suoi primi cinquanta anni di vita e, fra i suoi risultati, si può certamente annoverare il forte impulso che essa ha dato alla robotica o, almeno, a quella robotica che intende conferire alla macchina una intelligenza in qualche misura simile a quella umana. Inutile aggiungere che, come é già accaduto all’IA, anche la robotica antropomorfa ha generato controversie di vario ordine circa la reale possibilità di riproduzione, in questo caso addirittura fisica, dell’uomo. Tuttavia, al di là della rinnovata discussione sui presumibili limiti che la tecnologia deve fronteggiare nel tentativo di mettersi al posto della natura, in particolare se si pone obiettivi di elevatissima complessità, non si può negare che oggi la robotica stia vivendo un momento di notevole sviluppo.
è interessante, a questo riguardo, osservare almeno tre importanti linee di ricerca, variamente rappresentate sul piano internazionale. La prima, forse la più consolidata, è la robotica industriale, sempre più flessibile, affidabile e dalle diffusissime applicazioni. La seconda, all’estremo opposto, é, appunto, la robotica antropomorfa che costituisce la più diretta continuazione, sul piano hardware, dell’IA, poichè si pone come finalità generale la progettazione di «umanoidi», ossia di sistemi che esibiscano abilità sensorie, motorie, di autoregolazione ma anche di ragionamento simili a quelle umane. Alcuni sistemi del genere, come il tedesco Care-O-bot II, sono progetti destinati a operare per scopi pratici in collaborazione con l’uomo; altri, come i diversi progetti di arti artificiali, si pongono obiettivi parziali di riproduzione più dettagliata di sottosistemi umani. Fra questi basti citare il braccio realizzato alla Honda o quello del robot tedesco Arnold o, per restare in Italia, i progetti del gruppo diretto dal prof. U. Cugini al Politecnico di Milano in tema di interfacce aptiche e altri di varia natura in alcune altre università.
La terza linea di sviluppo, da parte sua, abbandonata l’idea antropomorfica, sta progredendo rapidamente verso realizzazioni di elevato interesse applicativo, da un lato, prendendo spunto da proprietà o abilità di sistemi di diversa indole e, dall’altro, impiegando massicciamente le crescenti potenze di calcolo dei computer e dei microcontrollori. Anche in questo aspetto, la robotica sembra insomma ripetere la parabola dell’IA, la quale, nata ponendosi come esemplare da riprodurre la mente umana, ha poi trovato un equilibrio assai più efficace nel perseguimento di obiettivi più limitati, come, per fare un solo esempio, i sistemi esperti che cercano di trasferire alla macchina la capacità di ragionare in ambiti specifici, come si può rilevare nell’attività di un professionista.
Così, accanto ad Aibo da un lato e ai robot industriali dall’altro, c’é una robotica intermedia che viene spesso trascurata, soprattutto dai mass media, maggiormente sensibili agli aspetti più spettacolari della robotica indipendentemente dal loro effettivo contenuto tecnico-scientifico. Si tratta di una vasta famiglia di dispositivi di alta tecnologia che, di norma, non ha nulla di antropomorfico ma che ha comunque lo scopo di surrogare varie funzioni normalmente svolte dagli esseri umani o, come vedremo, dagli animali. Potremmo definirla «robotica fine», senza alcun riferimento alle nanotecnologie ma, piuttosto, al carattere «locale» e specifico degli esemplari e delle prestazioni essenziali naturali assunti come spunto. Una robotica, in definitiva, tesa a generare veri e propri «naturoidi», cioé macchine che cercano di riprodurre proprietà o comportamenti di esemplari esistenti in natura, ma con obiettivi molto speciali e parziali. Mettendo da parte l’ambizione di progettare interi umanoidi, molti laboratori stanno infatti sperimentando vari prototipi destinati a svolgere compiti utili sia alla pratica quotidiana sia a vari aspetti e problemi della stessa ricerca scientifica.
Una testimonianza assai interessante viene dai laboratori di ingegneria della TUAT (Tokyo University of Agricolture and Technology), che si colloca fra le prime dieci università nipponiche in fatto di tecnologia.
Con lo slogan «Where Chemistry Meets Robotics», il giovane professore H. Ishida, del Dipartimento di Mechanical Systems Engineering sta progettando, in collaborazione con alcuni studiosi americani, un dispositivo capace di inseguire tracce di vari tipi di gas sia sul suolo che sott’acqua. Il piccolo robot Gas-Plume Tracking si basa su vari sensori – attualmente 4 – e sul loro coordinamento finalizzato non solo ad avvertire la presenza di flussi turbolenti di gas, ma anche di cercarli attivamente creando correnti dirette verso se stesso e, dunque, aspirando il fluido per poi poterlo analizzare. Lo spunto naturale é il comportamento dei granchi i quali, quando mancano correnti sufficienti a portare gli odori verso di loro, le creano deliberatamente per mezzo dei propri flagelli. Analogo comportamento mostrano le falene, che, alla ricerca dell’odore della femmina, in caso di perdita della traccia di ferormoni, effettuano uno scanning dell’aria sempre più ampio fino a che ritrovano la strada giusta. Le applicazioni più prevedibili di questi piccoli naturoidi includono l’inseguimento di perdite di gas di varia natura, correnti di sostanze inquinanti e così via.
Questa polarizzazione su esemplari organici speciali costituisce, secondo noi, una rilevante e assai promettente apertura intellettuale di cui é esempio, in Italia, l’innovativo lavoro sui «plantoidi» del gruppo diretto dal prof. S. Mancuso, a Firenze, orientato a riprodurre le abilità sensorie e di trasmissione di informazione delle radici delle piante.
A sua volta, in un altro laboratorio della TUAT, il Masuda Lab, il professor K. Masuda sta collaudando un robot del tutto inedito. Si tratta di un dispositivo che mette in grado il medico, dal suo posto in ospedale, di effettuare ecografie sul corpo di un paziente che si trovi su un’autoambulanza, accorciando in tal modo i tempi della diagnostica negli interventi d’urgenza. Il nucleo del dispositivo é denominato twist pantograph, cioé un sistema di bracci molto leggero (2 kg) i cui gradi di libertà consentono un posizionamento efficiente dei sensori sul corpo del paziente e la loro stabilizzazione, tramite feed-back rapidissimi e continui, nel corso dell’esame durante il trasporto verso l’ospedale. Una complessa metodica di «cinematica inversa» provvede alla regolazione dei movimenti dei bracci e all’avvicinamento dei sensori alla superficie del corpo. Allo scopo di operare con efficienza ed anche per evitare pressioni dolorose sul paziente, il medico riceve un bio-feedback che consiste in una sensazione variabile di pressione sulle proprie mani che gli permette di utilizzare al meglio i sensori. Anche questa nuova tecnica apre nuove soluzioni a vari problemi pratici, quelli in cui dispositivi di precisione debbano essere utilizzati in condizioni di instabilità dello strumento di rilevazione o dell’oggetto osservato.
Sempre in tema di medicina, assai promettente sembra essere la sperimentazione di T. Mashimo, del Toyama Lab presso la TUAT, su robot in grado di assistere l’attività chirurgica. In particolare, Mashimo si occupa di un piccolo robot slave (26 millimetri di diametro) attrezzato per micro interventi e manovrato dal chirurgo attraverso un piccolo robot master montato sulla mano. La particolarità di questo progetto consiste nel fatto che il robot slave é pensato per operare all’interno di una camera di risonanza magnetica (MRI, Magnetic Resonance Imaging). In ambiente MRI ovviamente il chirurgo non può intervenire e quindi il sistema slave e master costituisce un naturoide che prende esempio dalla sua mano e ne riproduce i gesti. Il problema tecnico fondamentale, in questo caso, é costituito dal fatto che il forte campo magnetico presente nella camera MRI rende impossibile adottare componenti che potrebbero essere disturbati o attratti dal campo magnetico. Inoltre, il rumore elettrico generato dal robot slave potrebbe interferire con il prelievo di dati dal corpo del paziente. La soluzione, davvero originale, consiste nell’ideazione di un manipolatore (il robot slave) SUSM (Surgical Ultrasonic Spherical Motor) costruito con materiali non magnetici. Il suo impiego genera un rumore elettrico minimo, compatibile con le esigenze della diagnosi ed é sicuramente adottabile anche in molte altre applicazioni.
è da notare che la cultura giapponese sembra particolarmente incline a realizzazioni del tipo dei progetti sopra citati, grazie al modello kyosei, che indica il loro sforzo di coniugare le tecnologie più avanzate con l’antica tradizione artigiana caratterizzata dall’amore per i dettagli e le fini messe a punto.
Una conclusione significativa, riguardo ai tre progetti che abbiamo brevemente presentato e a molti altri naturoidi che si stanno sviluppando, per esempio, in bio-ingegneria, è costituita dal fatto che l’IA tradizionale non vi gioca un ruolo essenziale. Piuttosto, ogni progetto fa sì uso di microcomputer, ma non per riprodurre le facoltà superiori della mente umana, bensì per effettuare calcoli spesso assai complessi al fine di guidare il nucleo forte della macchina, che è sempre di ordine squisitamente meccanico e marcatamente dedicato a una o poche prestazioni essenziali.
In fondo, la vera novità introdotta dall’IA, e che emerge oggi, dopo mezzo secolo di esistenza, consiste esattamente nella ricerca di intelligenze alternative più che nella riproduzione di quella umana. Tutto questo implica un aumento della varietà complessiva del mondo che andrebbe studiato a fondo come una vera e propria nuova fenomenologia. R. Kurzweil, nel suo ultimo libro The Singularity Is Near: When Humans Transcend Biology, insiste sulla profezia di un mondo futuro – opportunamente lontano – nel quale l’intelligenza non biologica supererà enormemente quella biologica, mutando radicalmente la nostra specie che diverrà, manco a dirlo, notevolmente più creativa. In realtà, i cambiamenti in gioco sono estremamente imprevedibili e non hanno a che fare solo con l’accrescimento delle nostre capacità tecnologiche e di calcolo in quanto tali, ma anche, e soprattutto, con le sottili modificazioni che introduciamo, con i naturoidi, proprio nella varietà complessiva della natura.
La robotica, e quella fine in particolare, prendono spunto dalla natura ma, poi, introducono nel progetto modelli, euristiche e calcoli che ne fanno una cosa diversa, in qualche caso più rudimentale e in altri più raffinata, di quanto facciano i vari esemplari naturali. Sembra una buona lezione di concretezza e, allo stesso tempo, uno doppio stimolo intellettuale. Da un lato verso una più ampia esplorazione della natura e di ciò che, in essa, é davvero riproducibile con le tecnologie disponibili; dall’altro, verso la consapevolezza che ogni riproduzione tecnologica é inevitabilmente destinata a esaltare qualche prestazione essenziale e non già l’intero sistema naturale che la genera. Le relazioni qualitative, per esempio evolutive, che così si innescano, fra oggetti, sistemi e processi naturali da un lato e naturoidi dall’altro, costituiscono un terreno di ricerca del tutto inesplorato.