Nell’intervista, la storica della tecnologia Mar Hicks dell’Illinois Institute of Technology, spiega come le catastrofi spesso mettano in mostra disuguaglianze strutturali di lunga data e costringano chi è al potere ad affrontare i problemi.
di Karen Hao
Qual è stato il ruolo delle catastrofi nel plasmare la nostra società nel corso della storia?
Le catastrofi tendono a rendere evidenti questioni di fondo che sono rimaste ai margini dell’azione politica. Inevitabilmente questi eventi terribili costringono le persone a fare i conti con i problemi che sono stati ignorati da chi detiene il potere.
Lei distingue tra disastri utili e inutili. Cosa fa sì che le catastrofi si manifestino in un modo o nell’altro?
Un disastro utile in qualche modo produce cambiamenti normativi o legislativi. Ma, chiaramente, dobbiamo sempre ricordarci che anche in questi casi muoiono delle persone e altre si ritrovano le vite distrutte. Uno dei primi disastri che osserviamo nel corso della storia è un episodio di colera a Londra a metà del XIX secolo. Quella calamità ha convinto le autorità londinesi a costruire più fognature in modo che l’acqua potabile non si mescolasse ai loro rifiuti.
Un limite, è che il disastro ha delle ricadute positive solo quando vengono colpite le persone più ricche e privilegiate in una società. Se le vittime appartengono alle fasce sociali più povere o alle minoranze non c’è una reazione altrettanto efficace. I loro problemi non vengono presi in considerazione da chi ha il potere o dalla cittadinanza in generale e vengono sottovalutati.
Pensa che l’attuale pandemia rischi di ricadere nella categoria dei disastri “inutili”?
Non mi sembra giusto parlarne ora in quanto la situazione è in continuo mutamento. Ma se si guarda alla storia e a come avvengono di solito i cambiamenti, sicuramente corriamo questo rischio.
Potrebbe fornire qualche esempio di come diversi sistemi – sociali, politici, tecnologici – hanno collaborato per avviare cambiamenti dopo una calamità?
L’impatto disastroso del coronavirus non è solo legato al dato dell’infezione, ma a una combinazione di guasti sistemici e infrastrutturali datati nel tempo. Le disfunzioni che sono emerse possono sembrare legate alla contingenza, ma sono frutto delle politiche sanitarie, economiche e sociali che abbiamo adottato.
L’esempio dell’industria automobilistica nella prima metà del XX secolo fa capire come i fallimenti siano sia improvvisi sia graduali. In quegli anni venne introdotta una nuova tecnologia. Man mano che si costruiva l’infrastruttura stradale, molti persero la vita o rimasero invalidi.
Le persone finivano contro gli spigoli dei cruscotti o venivano feriti dai piantoni dello sterzo; tutto questo accadeva perché i produttori di automobili si rifiutavano di investire denaro e tempo per introdurre uno sterzo pieghevole o le cinture di sicurezza.
A metà del XX secolo, si è creato un movimento di protesta in gran parte guidato da attivisti in favore della sicurezza dei consumatori come Ralph Nader, per cercare di attirare l’attenzione del governo federale. Tutti sapevano cosa non andava da molto tempo: i medici avevano adattato le proprie automobili con le cinture di sicurezza già da decenni.
Ma sono state necessarie numerose vittime prima che ci fosse la volontà politica di introdurre regole per i produttori di auto e stabilire l’obbligo di determinate attrezzature di sicurezza. Inoltre, le leggi non erano sufficienti senza un’agenzia di controllo per garantire che i produttori di auto le rispettassero.
Per questa ragione è nata la National Highway Traffic Safety Administration. Il prezzo da pagare per limitare i danni si traduce nelle iniziative necessarie per ristabilire il controllo sui sistemi che non rispettano le regole del vivere civile.
Un discorso simile si può fare quando si fa riferimento alla storia dell’inquinamento e alla creazione dell’Environmental Protection Agency o del Triangle Factory Fire, l’incendio della fabbrica Triangle nel 1911, che ha portato all’emanazione di molte leggi per la tutela del lavoro.
Spesso queste catastrofi causano cambiamenti, ma solo se accompagnate da movimenti di protesta sociale. Le persone rischiano le loro vite e quindi devono costantemente assicurarsi che le conquiste ottenute rimangano permanenti.
Dato che ha vissuto questa pandemia in prima persona, come la conoscenza storica l’ha aiutata a dare un senso alle sfide che stiamo affrontando?
Direi che nella situazione attuale abbiamo molti problemi a rendere operative le potenziali soluzioni. Un aspetto complesso quando si parla di calamità sanitarie è che, anche nelle democrazie, le misure per limitare i contagi devono essere in gran parte coercitive. Inoltre senza vaccini, sistemi fognari e sanitari all’altezza non è possibile rispondere in modo adeguato.
Ciò solleva molte domande sull’autoritarismo. Soprattutto in un momento di crisi, il governo tende a prendere decisioni d’imperio. D’altra parte, senza una direzione decisa dall’alto verso il basso, non è possibile mitigare e fermare la diffusione di un virus.
Le persone sono decisamente preoccupate che la risposta alla covid-19 sarà usata come un pretesto per erodere le protezioni della privacy. Come si può evitare che accada?
Se torniamo indietro di qualche anno, vediamo che l’11 settembre, è stato un’occasione per i governi per abrogare alcuni diritti civili, senza poi ritornare sui propri passi. In altre parole, i diritti vengono sospesi non per la durata della crisi, ma per un periodo futuro e potenzialmente per sempre. Una delle più grandi lezioni che possiamo imparare dalle catastrofi precedenti è la necessità di avere una risposta valida e immediata al disastro.
Non si può arrivare al punto in cui si deve intervenire con misure autoritarie davvero rigorose o che prevedano forme di stretta sorveglianza e l’abrogazione del diritto alla privacy. Una volta che un sistema simile è avviato, è molto difficile arrestare la spirale di misure sempre più restrittive che eliminano la privacy in cambio di un bene superiore.
Siamo già andati oltre?
Non credo ci sia una risposta unica e ritengo che i governi statali e locali, in particolare, stiano ponendo grande attenzione a questo problema. Ma, allo stesso tempo penso che a livello federale abbiamo una vera crisi di leadership e siano state prese molte decisioni sbagliate che potrebbero farci entrare in una situazione a rischio.
Sembra che sia la prima volta che affrontiamo situazioni di emergenza. Non abbiamo, infatti, un organo governativo che si assuma la responsabilità di intervenire con misure straordinarie. Cosa bisogna cambiare per vincere la sfida?
Non partiamo da zero. Ci sono precedenti storici per quello che sta succedendo ora. Numerose pandemie che hanno colpito globalmente, o guerre in aree regionali o, nella memoria più recente, disastri economici come la crisi economica del 2008.
Uno dei motivi per cui questo disastro sembra diverso è che alcuni paesi, inclusi gli Stati Uniti, erano del tutto impreparati ad affrontarlo. Ma la crisi della covid-19 ricorda altre catastrofi in cui avremmo avuto bisogno della cooperazione nazionale e internazionale per intraprendere azioni come la riduzione delle emissioni di carbonio, ma che non hanno portato a una risposta adeguata.
Ci possiamo permettere di non tener conto degli “avvisi” che continuano ad arrivarci?
La realtà è che molte volte gli avvisi non vengono ignorati perché, quando l’infrastruttura funziona, non ce ne rendiamo neanche conto. Nei casi in cui la risposta a livello federale è immediata, si evita del tutto il disastro. Ciò significa che deve precipitare la situazione per effettuare un cambiamento sistemico? Vorrei che così non fosse, ma a volte i responsabili politici agiscono solo se messi con le spalle al muro.
(rp)