Il 26 settembre 1940, esattamente ottanta anni fa, Walter Benjamin si suicidò a Port Bou, sul confine tra la Francia e la Spagna, per evitare l’arresto da parte della polizia di frontiera spagnola e la riconsegna alle milizie naziste che occupavano il territorio francese.
La morte di Walter Benjamin – un suicidio di cui ancora oggi non si conoscono tutte le motivazioni e le circostanze (ne abbiamo scritto anche noi in Adorno&Benjamin, Sossella 2015) – continua a interpellarci in merito alle radicali trasformazioni, tecnologiche, ma non soltanto, di un mondo in cui diventa sempre più facile riperdersi che ritrovarsi.
Benjamin diceva di non amare la tecnologia o, meglio, pensava che la tecnologia gli sottraesse più di quanto gli concedesse. Nel suo saggio forse più popolare, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica (1935-1939), questa frustrante contraddizione tra il “perdere” e il “prendere” serpeggia in ogni riga. Certo, le nuove tecnologie mediatiche consentono di condividere un patrimonio culturale tradizionalmente riservato a quelle che non a caso si definivano “classi colte”. Ma al tempo stesso questo patrimonio viene “mercificato”, sottraendogli l’aura, quel sentimento di valorizzazione simbolica che in ogni opera deriva anche dalla sua unicità, dal fatto di “abitare” in un luogo e in un tempo determinati. Così conferendo senso a ogni altro “abitare”, cioè alla idea che corra un rapporto stretto tra contestualizzazione e convivenza.
All’inizio del Novecento si affermano nuove muse, che si aggiungono a quelle classiche: cinema, fotografia, discografia. Tutte modalità espressive inevitabilmente dipendenti da dispositivi tecnologici in fase sia di produzione sia di fruizione. Dispositivi che, nella loro crescente mediaticità, tendono a mettere in crisi le tradizionali modalità del vivere insieme, basate essenzialmente sul rapporto “faccia a faccia”. In effetti, la tecnologia, non soltanto quella della comunicazione, si mette fatalmente in mezzo: tra le persone e le persone, tra le persone e il mondo, ma anche, nel mondo, tra le parole e le cose.
Scriveva Benjamin che, nel mercato dell’arte, «ancora prima delle merci, quel che va prodotto è il loro consumo». Ora, se è vero che la tecnologia costituisce uno strumento di liberazione intellettuale e di demistificazione dei tanti persistenti privilegi funzionali e culturali, è anche vero che, almeno sinora, non ne sta derivando una diffusa e autonoma capacità di fare tesoro delle parole e delle cose, bensì una loro massificazione e banalizzazione, in cui anche la produzione artistica, oltre a quella commerciale, non si sottrae al controllo delle ideologie dominanti.
In una delle notazione con cui si apre la sua opera monumentale e incompiuta, I “passages” di Parigi (Einaudi 2002), Benjamin sintetizza queste contraddizioni, che si coprono l’una con l’altra, in una analisi straordinaria della “modernità”. Della nostra modernità, che non si pone semplicemente tra quanto veniva prima e quanto verrà dopo, ma si frantuma tecnologicamente sotto i nostri occhi come un “caleidoscopio”.
Scriveva Benjamin a questo proposito che «non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida e disperata consapevolezza di essere nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità. Ogni epoca percepisce se stessa come irrimediabilmente moderna. Il “moderno” tuttavia è diverso nel senso in cui sono diverse le varie figure di uno stesso caleidoscopio». E cosa è un caleidoscopio se non una illusione che, fatta a pezzi, tenta incessantemente e disperatamente di ricomporsi?
In una nota redatta negli stessi anni del saggio sulla riproducibilità tecnica e oggi raccolta nei suoi “scritti politici” (Senza scopo finale, Castelvecchi 2017), Benjamin torna sul concetto di “aura” fornendone una versione fenomenologicamente assai pertinente. L’aura significa avere la possibilità e la capacità di entrare in un rapporto profondo con qualcuno o con qualcosa: «Esperire l’aura di un fenomeno o di un essere» significa diventare coscienti della sua facoltà di ricambiare uno sguardo. Questa facoltà è piena di poesia, perché «ci trascina lontano», fuori di noi, dietro il sogno dell’altro.
Spesso però la tecnologia, invece di alimentare questo sogno, consentendoci di “abitare” un mondo più grande, «smarrisce la forza dello sguardo», che «cessa di somigliare allo sguardo dell’amata che solleva gli occhi sotto lo sguardo dell’amato». Questo sguardo a cui è stata sottratta la “lontananza”, conclude Benjamin, e noi con lui, diventa «lo sguardo di chi si è svegliato da ogni sogno, della notte come del giorno».
Tuttavia, fortunatamente, l’aura di Benjamin, forse anche grazie alla tecnologia “riproduttiva” che tanto lo preoccupava, non si è esaurita con la morte; anzi da allora continua ad accrescersi. Perciò, possiamo continuare a guardarlo negli occhi, per cogliervi il sogno celato nel suo sguardo: il sogno – come scriveva nell’ultima delle Tesi sul concetto di storia, l’opera che probabilmente portava con sé prima di morire – che «ogni secondo sia la piccola porta da cui può entrare il Messia».
(gv)